La patologia cronica come fonte di resilienza

Dott.ssa Roberta Giusto ~ Psicologa
Pubblicazione – ANNO 4 N. 34 APRILE 2021 – ISSN: 2612/4947

La parola “cronicità”, dal suo significato forte e preponderante, spaventa. Quello che è cronico è incurabile, permanente, costante. Ciò che maggiormente caratterizza le patologie croniche è il loro sviluppo incerto e imprevedibile fin dal principio della diagnosi: i sintomi possono comparire all’improvviso, causando uno sconvolgimento nella quotidianità della persona e della famiglia con cui convive, oppure possono esserci casi di asintomaticità dove la diagnosi viene scoperta grazie ad altre analisi casualmente fatte per precedenti problemi fisici. Insomma in qualsiasi modo lo si scopre è sempre un macigno che con violenza e indifferenza cade sul nostro mondo, anche e soprattutto quello interiore. Tali patologie alternano periodi di relativo benessere a periodi di riacutizzazione dei sintomi e questo contribuisce al clima di incertezza nonché all’impossibilità di controllarne il decorso. L’adattamento alla cronicità sembra irrompere nella vita dell’individuo come un vero e proprio sisma che genera un importante senso di “frattura”. Ciò che viene a mancare in questi casi è il potere sulla propria vita, ci si sente completamente sopraffatti e si percepisce un senso di “manipolazione” dettato dal “mostro” con un forte senso di impotenza. Le tematiche psicologiche più presenti post diagnosi sono:

  • La paura di perdere il controllo;
  • La dipendenza forzata da un trattamento;
  • Il cambiamento del proprio stile di vita;
  • La cronicità della propria condizione;
  • Il sentimento di perdita di una propria “normalità” magari con fatica creata.

Come si può evincere da questo breve elenco la patologia cronica e il contesto che la circonda è caratterizzata da variabili fattori che devono necessariamente essere presi in considerazione. Motivo per cui per trattare una cronicità è consigliato un lavoro di equipe che include medico, psicologo e soprattutto il paziente. Quest’ultimo deve essere soggetto attivo e coinvolto nel suo processo di “cura”. Infatti l’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) tratta questo aspetto definendo che “la scarsa aderenza alle terapie croniche compromette gravemente l’efficacia del trattamento […] Aumentare l’aderenza può avere un impatto sulla salute della popolazione molto maggiore di ogni miglioramento di specifici trattamenti terapeutici”. Per aderenza intendiamo il grado di effettiva coincidenza tra il comportamento individuale della persona coinvolta e le prescrizioni terapeutiche ricevute dal personale sanitario ossia:

  • dal medico che tratta l’aspetto farmacologico;
  • dal nutrizionista e/o personal trainer che puntano a modificare e migliorare lo stile di vita della persona;
  • dallo psicologo che ha una duplice funzione. Da un lato aiuta, attraverso un percorso di accettazione della patologia, ad esprimere le proprie emozioni in merito alla diagnosi e al proprio futuro nonché coinvolge la persona nell’attuazione continua, concreta e proattiva di strategie atte a migliorare la qualità della propria vita. Dall’altro funge da facilitatore e mediatore nei processi di gestione della comunicazione e della relazione tra il paziente e i familiari e tra il paziente e i sistemi territoriali.

Per raggiungere questi obiettivi ciò di cui possiamo servirci è una buona comunicazione e accoglienza utile a riconoscere la realtà soggettiva della persona che si affida a dei professionisti, una realtà estremamente valida e di importanza vitale per il paziente. Per migliorare la comunicazione, sia degli operatori che dei familiari verso la persona con patologica cronica bisogna:

  • Inviare messaggi chiari e concisi;
  • Aspettare il tempo necessario affinché i messaggi vengano compresi;
  • Sviluppare empatia e comprensione, non assolutamente giudizio o sottovalutazione della sua condizione;
  • Saper ascoltare attivamente ossia “essere capaci di assumere il punto di vista dell’altro sia pur temporaneamente” (Rogers).

Tutti questi aspetti saranno fondamentali per passare dal “curare” al “prendersi cura” di una persona nella sua permanente cronicità. Lo spaesamento, la rabbia, la frustrazione, possono produrre un atteggiamento oppositivo: se è troppo oneroso dal punto di vista emotivo si tenderà a mettere in atto comportamenti di boicottaggio della cura che, a loro volta, potrebbero innestare sentimenti di ansia e depressione. Risulta quindi fondamentale considerare la persona nell’interezza delle sue sfaccettature ossia nelle sue sensazioni corporee, emotive e mentali. L’obiettivo primario sarà quello di sviluppare una vera e propria motivazione intrinseca utilizzata come chiave di volta per un cambiamento sentito, accolto, condiviso della propria quotidianità. Solo in questo modo il ruolo della persona con cronicità diviene da passivo, ossia raccoglitore di nozioni, informazioni e tecnicismi (da evitare) ad attivo ossia partecipe e consapevole del suo percorso di cura. (Gentili; 2000).

L’obiettivo globale sarà pertanto quello di aumentare il proprio senso di autoefficacia; il proprio locus of control (letteralmente “luogo attraverso cui si esercita il controllo”) necessario per riprovare la sensazione di avere il controllo sulla propria vita; favorire strategie di empowerment (ossia migliorare il proprio livello di competenza nella gestione della patologia); migliorare il livello di elaborazione emotiva della malattia (engagement). Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto il processo di engagement verso la gestione della cronicità ha dei livelli incrementali che bisogna attraversare:

  • Blackout: “Sono sconvolto” (momento della diagnosi)
  • Allerta: “Sono un corpo malato”
  • Adesione: “Sono un paziente”
  • Eudaimonia: “Sono una persona”

Attraversare questo percorso rappresenta un enorme banco di prova per la propria resilienza. Quest’ultima si riferisce alla capacità di una persona di riuscire ad affrontare eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva e funzionale la propria vita dinanzi alle difficoltà, di qualsiasi tipo siano. La diagnosi di una cronicità è percepita come una insormontabile avversità e l’adattamento (caratteristica tipica di una persona resiliente), che non vuol dire necessariamente rassegnazione, è la meta finale da raggiungere dopo un percorso multidisciplinare di accompagnamento. Essere dei pazienti resilienti è di più facile gestione, essere persone resilienti e un po’ più complicato e non bisogna vergognarsi di non riuscire a trovare nella propria cronicità nulla di positivo o accogliente. È legittimo non sentirsi in grado o non voler affrontare quotidianamente una patologia cronica soprattutto se si è completamente soli in questo vortice di incertezze, insicurezze, sofferenze, dolori, dubbi, perplessità e solitudine. Pertanto se dinanzi ad una cronicità ci si sente smarriti non colpevolizzatevi perché è normale, non abbiate paura di chiedere un aiuto psicologico poiché potete, nel corso del tempo, acquisire la consapevolezza di essere i maggiori esperti di voi stessi e di avere la responsabilità di gestire ed esercitare in prima persona il controllo, prima di tutto, sulla patologia e sulla propria vita come normale conseguenza. Non bisogna parlare di “persone malate croniche” ma di persone che hanno una malattia cronica. L’identità dell’individuo deve essere sempre salvaguardata.

4 commenti

  1. Dott. Riccardo Esposito

    Complimenti per l’articolo!

  2. Grazie per l’articolo! Molto interessante..

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