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Analoghi del GLP-1: Liraglutide, farmaco utilizzato nel trattamento dell’obesità

Dott.ssa Michela Grossato  ~ Farmacista – Laurea in Scienze della Nutrizione Umana
Pubblicazione – ANNO 6 N.63 NOVEMBRE 2023 – ISSN: 2612/4947 – Relatore: Prof.ssa Patrizia Russo – Università San Raffaele Roma

Abstract

Sovrappeso e obesità sono uno dei più seri problemi correlati allo stile di vita della società contemporanea. Il parametro utilizzato per la definizione di sovrappeso e obesità è il BMI (Body Mass Index), espresso dal rapporto fra peso (kg) e altezza al quadrato (m2) (Jensen et al., 2014). Per gli adulti, un valore di BMI compreso tra 25 e 29,9 kg/m2 indica una condizione di sovrappeso; un valore di BMI superiore a 30 kg/m2 è, invece, indice di obesità (Jensen et al., 2014). A livello mondiale, dal 1980 al 2013, la prevalenza di persone affette da sovrappeso e obesità ha subito un aumento del 27,5% negli adulti e del 47,1% nei bambini, per un totale di 2,1 miliardi di persone sovrappeso o obese (Ng et al., 2014). Questo aumento è stato riscontrato sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. Ciononostante, la prevalenza di soggetti sovrappeso o obesi è maggiore nei Paesi sviluppati rispetto a quelli in via di sviluppo (Ng et al., 2014). 

La causa esatta dell’obesità è tuttora sconosciuta; tuttavia, sembra essere correlata ad una complessa rete di fattori biologici, psicosociali e comportamentali che includono la componente genetica, lo status socioeconomico, le influenze culturali, l’ambiente di appartenenza (Skelton et al., 2011). L’obesità deriva da uno squilibrio cronico tra l’apporto energetico e il dispendio energetico. Iperfagia, basso tasso metabolico, bassi livelli di ossidazione dei grassi e un sistema simpatico compromesso caratterizzano modelli animali affetti da obesità. L’appartenenza ad una determinata etnia, i fattori culturali e l’ambiente in cui un individuo vive influenzano il peso di quest’ultimo. L’ambiente urbano influisce sulla quantità e qualità dell’attività fisica. L’aumento dell’attività fisica è fondamentale nella gestione dell’eccesso ponderale; le linee guida, infatti, raccomandano che tutti i programmi di gestione dell’obesità consistano in un aumento dell’attività fisica, dieta ipocalorica e modifiche comportamentali.

Tuttavia, spesso una dieta ipocalorica insieme ad un’aumentata attività fisica non sono sufficienti a far fronte a questo problema, soprattutto in individui che presentano altre comorbilità. Pertanto, la Ricerca viene in soccorso. Nel tempo, studi effettuati prima sugli animali e poi sull’uomo hanno permesso di individuare e mettere a punto delle terapie farmacologiche che aiutino nella perdita di peso, migliorando al contempo parametri ematici come glicemia, profilo lipidico, indice HOMA ed emoglobina glicata.

Lo scopo della presente tesi è stato quello di fornire inizialmente una panoramica sull’obesità, le cause e le implicazioni non solo dal punto di vista della salute, ma anche a livello psico-sociale. Successivamente, è stato trattato il sistema incretinico per descrivere le terapie farmacologiche messe a punto per il trattamento di diabete di tipo 2 e obesità grazie all’azione degli analoghi incretinici. Infine, è stato descritto lo studio condotto sui pazienti del Dottor Georgios Anastassopoulos, specialista in medicina interna ed epatologia, trattati con il farmaco a base di Liraglutide (Saxenda®) per il trattamento di sovrappeso e obesità.

Questo studio è stato condotto da gennaio ad agosto 2023, su una popolazione adulta, di età compresa tra 18 e 60 anni, composta da 15 femmine e 15 maschi, trattati con il farmaco Saxenda® per 16 settimane, al fine di valutare l’impatto di questo farmaco su peso, glicemia, colesterolo totale e trigliceridi. 

Dai dati raccolti in questo studio è emerso che l’effetto del farmaco, insieme ad una dieta ipolipidica e ipoglucidica e un’aumentata attività fisica, ha contribuito in tutti i casi a una leggera perdita di peso nei due gruppi esaminati, seppur non statisticamente significativa (nelle femmine V%=-6.8±4.3 e p value=0.194; nei maschi V%=-4.6±3.38 e p value=0.300). Inoltre, per entrambi i gruppi, glicemia a digiuno (nelle femmine V%=-8.4±3.24, p value=0.084; nei maschi V%=-11.3±4.55, p value=0.109) e trigliceridi (nelle femmine V%=-6.1±7.88, p value=0.706; nei maschi V%=-32.1±13.05, p value=0.104) hanno mostrato una tendenza alla diminuzione, come si evince dalle variazioni percentuali.  Il calo del colesterolo totale è l’unico parametro ad aver dimostrato una diminuzione statisticamente significativa in entrambi i gruppi (nelle femmine V%=-16.8±7.9, p value=0.016; nei maschi V%=-16.7±8.65, p value=0.030)  I risultati di questa tesi aprono a nuove possibilità terapeutiche, ponendo l’attenzione sull’importanza di utilizzare il farmaco in una popolazione più ampia, con e senza l’utilizzo contemporaneo di statine o integratori a base di riso rosso fermentato, per comprendere più a fondo l’impatto del farmaco su questo parametro, da solo e in sinergia con le sostanze appena citate.

In parallelo, assieme agli aspetti positivi sulla salute dei pazienti in esame, questa tesi mette anche in luce le criticità riscontrate e gli eventuali effetti collaterali, insieme alle implicazioni socioeconomiche dell’utilizzo di questo farmaco.1. INTRODUZIONE 

  1. Definizione di obesità

Sovrappeso e obesità sono uno dei più seri problemi correlati allo stile di vita della società contemporanea. Il parametro utilizzato per la definizione di sovrappeso e obesità è il BMI (Body Mass Index), espresso dal rapporto fra peso (kg) e altezza al quadrato (m2) (Jensen et al., 2014). Per gli adulti, un valore di BMI compreso tra 25 e 29,9 kg/m2 indica una condizione di sovrappeso; un valore di BMI superiore a 30 kg/m2 è, invece, indice di obesità (Jensen et al., 2014). La Tabella 1 riporta la classificazione dei soggetti in relazione ai valori di BMI.

Tabella 1. Classificazione dello stato nutrizionale dell’individuo adulto in relazione al BMI.

< 18,5Sottopeso
18,5 < BMI > 24,9Normopeso
25 < BMI > 29,9Sovrappeso
30 < BMI > 34,9Obesità di 1⁰ grado
35 < BMI > 39,9Obesità di 2⁰ grado
BMI > 40Obesità di 3⁰ grado

Il BMI, conosciuto anche come IMC (Indice di Massa Corporea), non viene utilizzato nei bambini e adolescenti di età compresa tra i 2 e i 18 anni; per questi ultimi, si raccomanda invece di utilizzare la scala dei percentili di crescita (Tyson & Frank, 2018). Nella suddetta popolazione, il sovrappeso viene definito da un BMI compreso tra 85⁰ e 94⁰ percentile, mentre l’obesità da un valore di BMI superiore al 95⁰ percentile (Apovian, 2016). Per ogni aumento di 5 unità del valore di BMI superiore a 25 kg/m2 si verifica un aumento del 29% della mortalità complessiva, del 41% della mortalità per cause cardiovascolari e del 210% della mortalità correlata al diabete (Prospective Studies Collaboration et al., 2009). Inoltre, la misura dell’adiposità centrale attraverso la circonferenza vita e il rapporto vita/fianchi predice il rischio cardiovascolare, che non può essere determinato direttamente mediante il calcolo del BMI (Yusuf et al., 2005).

A livello mondiale, dal 1980 al 2013, la prevalenza di persone affette da sovrappeso e obesità ha subito un aumento del 27,5% negli adulti e del 47,1% nei bambini, per un totale di 2,1 miliardi di persone sovrappeso o obese (Ng et al., 2014). Negli Stati Uniti, la percentuale di soggetti obesi è del 12,4% e 13,4% rispettivamente per maschi e femmine al di sotto dei 20 anni; 31,7% e 33,9% per maschi e femmine di età superiore ai 20 anni, rispettivamente. La prevalenza è cresciuta dal 1992 al 2002, con una successiva stabilizzazione (Ng et al., 2014).

In figura 1 viene evidenziata la prevalenza di adulti con BMI maggiore o uguale a 25 kg/m2 nei vari Paesi del mondo (fonte: World Health Organization, 2016).

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Figura 1. Prevalenza di adulti sovrappeso con BMI ≥ 25 nel mondo (fonte: World Health Organization, 2016).

  1. Conseguenze economiche e impatto sociale dell’obesità

L’obesità è associata ad un incremento annuale del 36% della spesa sanitaria e del 70% del costo in farmaci rispetto ai soggetti normopeso (Sturm, 2002). È stato dimostrato che bambini con obesità sono stati assenti per un periodo significativamente maggiore (12.2 ± 11.7 giorni) rispetto ai coetanei ritenuti normopeso (10.1 ± 10.5 giorni) (Geier et al., 2007). Un alto valore di BMI negli ultimi anni dell’adolescenza è stato associato ad un livello inferiore di istruzione acquisita. Inoltre, bambini e ragazzi sovrappeso e obesi sono spesso oggetto di bullismo e comportamenti aggressivi da parte dei loro coetanei. Uno studio riguardante la relazione tra bullismo e BMI ha rivelato che gli adolescenti in condizioni di sovrappeso e obesità sono molto spesso vittime di isolamento, molestie, bugie, appellativi, dispetti (Janssen et al., 2004). L’obesità influenza, quindi, la frequenza scolastica, il livello di educazione, la capacità di apprendimento e le interazioni sociali. Se sovrappeso e obesità fossero affrontati precocemente nella vita di un individuo, questo potrebbe avere un sostanziale impatto in termini di spesa sanitaria. È stato stimato che, se il numero di individui in età compresa tra i 16 e i 17 anni, sovrappeso o obesi, fosse ridotto dell’1%, il numero di adulti sovrappeso o obesi del futuro sarebbe ridotto di 52,812; di conseguenza, i costi delle cure mediche a vita dopo i 40 anni diminuirebbero di 586 milioni di dollari (L. Y. Wang et al., 2010). 

  1. Fattori associati allo sviluppo dell’obesità

La causa esatta dell’obesità è tuttora sconosciuta; tuttavia, essa sembra essere correlata ad una complessa rete di fattori di tipo biologico, comportamentale, psicologico e sociale, dei quali rivestono particolare rilevanza la componente genetica, lo status socioeconomico, le influenze culturali, l’ambiente di appartenenza (Skelton et al., 2011). L’obesità è correlata a microrganismi, fattori epigenetici, aumento dell’età materna, maggiore fecondità, mancanza di sonno, interferenti endocrini e fattori iatrogeni (McAllister et al., 2009). La presenza di comorbilità e il loro trattamento possono essere ulteriori fattori implicati nello sviluppo dell’obesità. Tra le cause primarie si possono menzionare: fattori genetici, disordini monogenici (mutazione del recettore della melanocortina, deficienza di leptina, deficienza di proopiomelanocortina), sindromi (Prader-Willi, Bardet-Biedl, Cohen, Alström, Froehlich) (Apovian et al., 2015a). Tra le cause secondarie invece: fattori neurologici, endocrini, psicologici, iatrogeni (Apovian et al., 2015a). Tra i fattori endocrini possiamo citare l’ipotiroidismo, la sindrome di Cushing, il deficit dell’ormone della crescita e la condizione di pseudoipoparatiroidismo (Apovian et al., 2015a) . Tra i fattori psicologici spiccano i casi di depressione e di disturbi del comportamento alimentare (Apovian et al., 2015a). Anche i farmaci giocano un ruolo importante e tra questi citiamo gli antidepressivi triciclici, i contraccettivi orali, gli antipsicotici, gli anticonvulsivanti, i glucocorticoidi, le sulfoniluree, i glitazoni e i beta bloccanti (Apovian et al., 2015a). 

La fisiopatologia dell’obesità è stata ben compresa. Tuttavia, il trattamento e la prevenzione si sono concentrati in modo particolare sulle componenti psicologiche e sociali della malattia (Skelton et al., 2006). Ad oggi, infatti, i migliori interventi non invasivi si sono attuati in una modificazione della gestione dietetica e comportamentale (Skelton et al., 2006).

  1. Scelte alimentari e influenza sul peso corporeo

Le scelte alimentari, influenzate dall’ambiente familiare, dalla scuola, dall’ambiente lavorativo e dalla comunità, condizionano direttamente il tipo di cibo assunto e l’apporto calorico dello stesso (Apovian, 2016). Negli ultimi cento anni, in seguito ai progressi tecnologici nella lavorazione degli alimenti, la tipologia dei cibi consumati è cambiata moltissimo. Alimenti con un ridotto apporto di fibre e maggior contenuto in grassi, lo zucchero semplice, il consumo di sale e l’apporto calorico aumentato sono, in generale, solo alcuni esempi di come il cibo a cui abbiamo accesso sia diverso da quello consumato dai nostri antenati. Questi alimenti, oltre ad essere facilmente disponibili, sono in genere molto più economici delle alternative più sane. Il consumo di questi alimenti ultra-processati ha portato ad un aumento di circa 205 calorie nell’apporto calorico giornaliero medio di un individuo a partire dagli anni ’60 (Crino et al., 2015). Uno studio scolastico condotto dal CDC (Centers for Disease Control and Prevention) ha riportato che due terzi degli studenti delle scuole superiori degli Stati Uniti bevevano alcuni tipi di bevande zuccherate (come soda, limonata, tè, caffè e succhi di frutta zuccherati) almeno una volta al giorno, e circa il 22% consumava fino a tre porzioni al giorno di queste bevande (Park et al., 2012). Dal medesimo studio è emerso anche che studenti maschi e di colore, non ispanici, mangiavano al fast food almeno un giorno a settimana, guardavano la televisione più di due ore al giorno e avevano una maggiore possibilità di consumare bevande zuccherate fino a tre volte al giorno rispetto agli altri gruppi studiati. È emerso quindi che, tra i gruppi studiati, coloro che erano meno propensi a consumare quelle bevande erano studenti non ispanici di altre nazionalità o che avevano praticato almeno 60 minuti di attività fisica al giorno per almeno 5 giorni a settimana (Park et al., 2012). Il consumo di una bibita contenente zuccheri aggiunti al giorno, a seconda della dimensione da 8 a 20 oz, potrebbe fornire un apporto calorico variabile dalle 270 alle 690 calorie al giorno. È evidente, dunque, che il consumo di bevande zuccherate è associato ad un aumentato rischio di obesità, e tale rischio aumenta di 1,6 volte per ogni porzione aggiuntiva di bevanda zuccherata consumata giornalmente (Ludwig et al., 2001). Il consumo di cibi ad alta densità energetica è associato ad un aumento della circonferenza vita e del BMI (Du et al., 2009). Uno studio longitudinale di 6 anni ha confrontato due gruppi di donne: il primo gruppo ha condotto un regime alimentare a più alta densità energetica, costituito prevalentemente da carni, cereali e grassi, registrando un aumento del BMI di 2,5 unità rispetto al secondo gruppo di donne che ha condotto un’alimentazione a più bassa densità energetica, con più porzioni di frutta e verdura al giorno, registrando un aumento del BMI di 0,9 unità. I dati sui gruppi alimentari consumati hanno dimostrato che, rispetto alle donne che consumavano alimenti a più alto contenuto energetico, le donne che consumavano cibi a densità energetica inferiore, oltre a riportare un apporto energetico totale significativamente più basso, consumavano meno porzioni di dolci da forno, cereali raffinati e verdure fritte e più porzioni di frutta, verdura e cereali integrali. Inoltre, le donne che hanno condotto una dieta a densità energetica inferiore consumavano più pasti a tavola e meno davanti alla televisione (Savage et al., 2008).

  1. Relazione tra fattori socioeconomici e obesità

L’appartenenza ad una determinata etnia, i fattori culturali e l’ambiente in cui un individuo vive sono fattori che influenzano il peso di quest’ultimo. La segregazione razziale in determinate aree metropolitane non sembra essere stata associata ad obesità tra gli uomini; tuttavia, la segregazione sembra influenzare i tassi di obesità tra alcune donne (Kershaw et al., 2013). Per le donne nere, vivere in un’area altamente segregata è stato associato ad una prevalenza di obesità di 1,29 volte più alta, mentre vivere in un’area moderatamente segregata è stato associato ad una prevalenza di obesità aumentata di 1,35 volte. Al contrario, per le donne americano-messicane, vivere in un’area altamente segregata è associato ad una prevalenza di obesità significativamente inferiore, con una prevalenza dello 0,54 (Kershaw et al., 2013). 

Si raccomanda che gli adulti si impegnino in almeno 150 minuti di attività fisica di intensità moderata a settimana (Benjamin, 2010). Tuttavia, viene attribuita una diminuzione o una totale mancanza di attività fisica anche alla pianificazione dei quartieri residenziali, che scoraggia il trasporto attivo come camminare o andare in bicicletta. Altri fattori che contribuiscono ad una riduzione dell’attività fisica sono una ridotta disponibilità di ore di educazione fisica nelle scuole e una filosofia generale sia nell’ambiente scolastico che in quello lavorativo secondo la quale l’attività fisica non risulti essere una priorità (Glickman D et al., 2012). L’ambiente urbano esercita un’influenza sulla quantità e sul livello di attività fisica. Uno studio longitudinale nazionale sulla salute degli adolescenti ha esaminato la vicinanza delle strutture per l’attività fisica ai luoghi residenziali dei 20745 giovani che vi hanno partecipato (Gordon-Larsen et al., 2006). Da questo studio è emerso che le aree socioeconomiche più elevate erano dotate di un numero maggiore di strutture per l’attività fisica, le quali a loro volta erano associate ad una maggiore probabilità di adolescenti che praticavano attività fisica regolare 5 volte a settimana e ad una riduzione del tasso di giovani in condizione di sovrappeso. L’aumento dell’attività fisica è fondamentale nella gestione dell’eccesso ponderale; le linee guida raccomandano che tutti i programmi di gestione dell’obesità consistano in un aumento dell’attività fisica, dieta ipocalorica e modifiche comportamentali (Apovian et al., 2015b).

  1. Genetica e obesità

La ricerca ha permesso di individuare 12 loci genici associati all’obesità e questo permette di affermare che genetica e obesità sono strettamente correlate. I ricercatori hanno esaminato l’associazione tra questi loci e i valori di BMI, circonferenza vita, peso e altezza come predittivi del rischio di obesità (Li et al., 2010). Queste varianti hanno dimostrato avere un effetto cumulativo sull’obesità; infatti, ciascun allele è associato ad un aumento di peso di 444 grammi e ad un aumentato rischio di obesità del 10,8% (Li et al., 2010). Le influenze genetiche sul BMI sono fortemente correlate (Stunkard et al., 1990). Stunkard e colleghi hanno effettuato uno studio per valutare l’importanza relativa degli effetti genetici e ambientali sull’indice di massa corporea, studiando campioni di gemelli identici cresciuti sia insieme che separatamente (Stunkard et al., 1990). I campioni consistevano in 93 coppie di gemelli identici allevati separatamente, 154 coppie di gemelli identici allevati insieme, 218 coppie di gemelli fraterni allevati separatamente e 208 coppie di gemelli fraterni allevati insieme (Stunkard et al., 1990). I coefficienti di correlazione intra-coppia dei valori di BMI dei gemelli identici allevati separatamente erano dello 0,70 per gli uomini e 0,66 per le donne (Stunkard et al., 1990). Queste sono le stime più importanti relative alle influenze genetiche sull’indice di massa corporea, solo leggermente inferiori ai valori ottenuti per i gemelli allevati insieme, in questo studio e in studi precedenti (Stunkard et al., 1990). Delle potenziali influenze ambientali, solo quelle uniche e specifiche per l’individuo erano importanti, e non quelle condivise dai membri della famiglia, contribuendo a circa il 30% della varianza (Stunkard et al., 1990). La condivisione dello stesso ambiente infantile non ha contribuito alla somiglianza del BMI dei gemelli più avanti nella vita (Stunkard et al., 1990). Da questo studio si evince, quindi, che le influenze genetiche sull’indice di massa corporea sono sostanziali, mentre l’ambiente infantile ha poca o nessuna influenza (Stunkard et al., 1990). Questi risultati confermano ed estendono studi precedenti, effettuati su gemelli e adottati (Stunkard et al., 1990). Uno studio di coorte condotto confrontando il grasso corporeo di gemelli monozigoti adulti allevati separatamente con un gruppo di controllo costituito da gemelli monozigoti adulti allevati insieme ha evidenziato che il grasso corporeo è fortemente associato a fattori genetici, in quanto la correlazione era dello 0,61 per i primi e 0,75 per i secondi (Price & Gottesman, 1991a). Questi valori non differivano in modo significativo, né differivano significativamente i valori riscontrati nelle sottoclassi di gemelli monozigoti allevati separatamente in ambienti più o meno simili. Questi risultati suggeriscono ruoli importanti sia per i geni che per l’ambiente nell’accumulo di grasso corporeo e supportano altri studi di adozione nel suggerire che gli ambienti adulti rappresentano dei determinanti non genetici molto più importanti dell’ambiente nativo sui livelli di grasso corporeo (Price & Gottesman, 1991b). Circa il 60% delle differenze individuali nel grasso corporeo sono state attribuite alla genetica ma, poiché la correlazione è inferiore al 100%, anche l’ambiente deve influenzare la percentuale di grasso corporeo. Uno studio condotto su gemelli monozigoti e dizigoti ha esaminato le stime di ereditarietà per le misure di grasso corporeo, scoprendo che queste misure erano più o meno le stesse per entrambi i sessi, anche se leggermente superiori per gli uomini (Schousboe et al., 2004). Confrontando i dati ottenuti tra uomini e donne è emerso quanto segue: l’intervallo di varianza genetica per il BMI e la percentuale di grasso corporeo era di 0.58 e 0.63 rispettivamente; per la circonferenza vita, 0.61 per gli uomini e 0.48 per le donne; per le pliche, 0.48 e 0.61 rispettivamente. Pertanto, la genetica risulta fondamentale nel determinare chi diventerà obeso, mentre l’ambiente sembra determinare l’entità dell’obesità (Schousboe et al., 2004) (Price & Gottesman, 1991a).

2. REGOLAZIONE DELLA MASSA CORPOREA E DELL’ASSUNZIONE DI CIBO

Nel corso dell’evoluzione, gli esseri umani e gli animali hanno sviluppato meccanismi ridonanti che promuovono l’accumulo di grasso nei periodi di abbondanza al fine di sopravvivere nei periodi di carestia. Tuttavia, quello che un tempo era un vantaggio durante l’evoluzione si è trasformato in un ostacolo nell’attuale “ambiente obesogeno” (Ravussin, 1995). Nella società contemporanea, infatti, a causa del facile e continuo accesso al cibo, questo “genotipo parsimonioso” è diventato deleterio in quanto promuove efficacemente il deposito di grasso, in preparazione ad una carestia che non arriverà mai (Speakman, 2007). Questa ipotesi del “genotipo parsimonioso” è stata contestata da Speakman, che ha offerto una spiegazione alternativa in virtù del concetto di predazione (Speakman, 2007). Secondo Speakman, infatti, le carestie sono eventi demografici relativamente rari, che si verificano solamente una volta ogni cento anni circa, l’ultima delle quali si sarebbe verificata nel periodo di transizione verso una società basata maggiormente sull’agricoltura a scapito della caccia. L’assenza di predazione ha portato ad un cambiamento nella distribuzione del grasso corporeo all’interno della popolazione, a causa di mutazioni casuali e deriva genetica (Speakman, 2007). Indipendentemente dall’origine della predisposizione genetica all’obesità, il recente brusco cambiamento delle condizioni ambientali e sociali, in cui cibo ad alto contenuto di zuccheri e grassi è prontamente disponibile, ed un parallelo stile di vita sempre più sedentario, ha consentito all’obesità di trasformarsi in una vera e propria epidemia nei Paesi urbanizzati e industrializzati di tutto il mondo (“Obesity: Preventing and Managing the Global Epidemic. Report of a WHO Consultation.,” 2000) . Negli Stati Uniti, all’inizio del XXI secolo, due adulti su tre erano sovrappeso o obesi (Flegal et al., 2002). Ancora più allarmante è la prevalenza dell’obesità nei bambini (Troiano & Flegal, 1998). 

2.1 Metabolismo energetico, macronutrienti e regolazione del peso corporeo

L’obesità deriva da uno squilibrio cronico tra l’apporto energetico e il dispendio energetico (J. Galgani & Ravussin, 2008). Iperfagia, basso tasso metabolico, bassi livelli di ossidazione dei grassi e un sistema simpatico compromesso caratterizzano modelli animali affetti da obesità. Fattori metabolici simili sono stati individuati per caratterizzare e descrivere gli esseri umani suscettibili all’aumento di peso (J. Galgani & Ravussin, 2008). 

2.1.1 Equilibrio metabolico

L’equilibrio tra apporto energetico e dispendio energetico riveste un ruolo determinante nelle riserve di energia di un individuo. In quanto organismi viventi, dobbiamo obbedire alla prima legge della termodinamica, utilizzata in questo contesto per prevedere i cambiamenti del peso corporeo quando l’assunzione di cibo o la spesa energetica vengono modificate. Tuttavia, la classica equazione del bilancio energetico, che afferma che la riserva di energia corporea è la risultante della differenza tra apporto energetico e spesa energetica, ha generato confusione nel tentativo di comprendere il bilancio energetico negli esseri umani. Gran parte della confusione deriva dall’uso inappropriato dell’equazione statica di bilancio energetico. Chiaramente, quando il peso corporeo e la composizione corporea vengono mantenuti, ciò significa che l’assunzione di energia equivale al suo dispendio (J. Galgani & Ravussin, 2008). Alpert ha dimostrato che questa equazione statica è inadeguata, perché non tiene conto dell’aumento del dispendio energetico con l’aumento di peso, o il contrario quando si verifica una perdita di peso (Alpert, 1990). L’equazione corretta da utilizzare, dunque, non è statica ma dinamica, e afferma che il tasso di variazione delle riserve di energia è la risultante della differenza tra il tasso di assunzione di energia e il tasso di spesa energetica. L’utilizzo del termine “tasso” in questa equazione sottolinea la dipendenza dal tempo dei cambiamenti che si verificano a livello dei depositi di energia nell’organismo (J. Galgani & Ravussin, 2008). 

2.1.2 Equilibrio del substrato

Se le origini di un bilancio energetico positivo risiedono nello squilibrio cronico dell’apporto e spesa energetici, una domanda lecita da porsi è quali siano le condizioni che favoriscono uno squilibrio duraturo tra assunzione e dispendio. In pratica, è opportuno analizzare il bilancio energetico determinato dall’assunzione di ciascun singolo macronutriente come un’entità separata (J. Galgani & Ravussin, 2008).

Proteine – L’assunzione di proteine rappresenta circa il 15% dell’energia alimentare e le riserve di proteine rappresentano, nel corpo umano, circa un terzo dell’energia totale immagazzinata in un uomo di 70 kg. L’assunzione giornaliera di proteine ammonta a poco più dell’1% delle riserve proteiche totali (Bray, 1991). I depositi di proteine aumentano solo in risposta a stimoli di crescita, come l’ormone della crescita, gli androgeni, l’allenamento fisico e l’aumento di peso, ma non in seguito al semplice aumento delle proteine introdotte con la dieta (J. Galgani & Ravussin, 2008). I depositi di proteine sono quindi strettamente controllati, e l’equilibrio proteico viene raggiunto quotidianamente (Abbott et al., 1988). Di conseguenza, lo squilibrio proteico non può essere implicato come singola causa diretta dell’obesità, ma l’assunzione in eccesso di proteine può influenzare l’equilibrio dei grassi (Abbott et al., 1988) (J. Galgani & Ravussin, 2008). 

Carboidrati – I carboidrati sono generalmente la principale fonte di energia alimentare, ma le riserve corporee di glicogeno sono limitate: da 500 a 1000 grammi (Acheson et al., 1988). L’assunzione giornaliera di carboidrati corrisponde a circa il 50-100% delle riserve di carboidrati, rispetto all’1% rappresentato da proteine e grassi (Schutz et al., 1989), tant’è che per un periodo variabile da ore a pochi giorni le riserve di carboidrati fluttuano notevolmente rispetto a quelle di proteine e grassi. Tuttavia, in modo simile a quanto accade per le proteine, anche i carboidrati sono finemente controllati, anche se i meccanismi di questo controllo (umorale e nervoso) devono essere ancora chiariti (Abbott et al., 1988). Questo implica che l’assunzione in eccesso dei soli carboidrati non può essere la base dell’aumento di peso, perché la capacità di immagazzinamento è limitata e controllata e la conversione in grasso avviene in condizioni più estreme (Acheson et al., 1988) (J. Galgani & Ravussin, 2008).

Grassi – In netto contrasto con gli altri due macronutrienti, le riserve di grasso corporeo sono elevate e l’assunzione di grassi è quasi ininfluente sull’ossidazione degli stessi (Schutz et al., 1989) (Flatt et al., 1985) (J. Galgani & Ravussin, 2008). Come per le proteine, l’assunzione giornaliera di grassi rappresenta meno dell’1% delle riserve di grasso totali; tuttavia, le riserve di grasso contengono circa sei volte l’energia dei depositi di proteine (Bray, 1991). I depositi di grasso rappresentano un cuscinetto energetico per il corpo, e il rapporto tra bilancio energetico e bilancio di grasso è uguale a uno in condizioni quotidiane di piccoli squilibri, positivi o negativi (Abbott et al., 1988) (J. Galgani & Ravussin, 2008). Un deficit di 200 kcal oltre 24 ore significa che 200 kcal provengono dai depositi di grasso, e lo stesso vale per un eccesso di 200 kcal, che finisce nei depositi di grasso. In condizioni di sovralimentazione spontanea, l’assunzione di grassi in eccesso viene immagazzinata in depositi di grasso (Rising et al., 1992) (J. Galgani & Ravussin, 2008). 

2.1.3 Il metabolismo energetico per prevedere l’aumento del peso: basso tasso metabolico

Studi trasversali che confrontano individui magri e obesi aggiungono poche informazioni al nostro tentativo di comprendere i meccanismi fisiologici che predispongono all’aumento di peso (J. Galgani & Ravussin, 2008). La comprensione dell’eziologia dell’obesità richiede studi longitudinali. Diversi studi hanno esaminato in modo prospettico quali siano i fattori predittivi dell’obesità nella popolazione Pima, nel sud-ovest dell’Arizona, in quanto trattasi di una popolazione nella quale l’obesità è estremamente diffusa e l’aumento di peso comune nei giovani adulti (Knowler et al., 1991). In questi individui è stato scoperto che almeno quattro parametri metabolici sono predittivi dell’aumento di peso: basso tasso metabolico, attività fisica spontanea ridotta, bassa attività del sistema nervoso simpatico e bassi livelli di ossidazione dei grassi (Knowler et al., 1991) (J. Galgani & Ravussin, 2008).

Gli studi effettuati su indiani Pima non diabetici hanno identificato che un basso tasso metabolico relativo (aggiustato per le differenze di massa magra, massa grassa, età e sesso) era un fattore di rischio per l’aumento ponderale (Ravussin et al., 1988) (J. Galgani & Ravussin, 2008). Nel corso di un follow-up di 4 anni, si è scoperto che il rischio di incorrere in un aumento ponderale di 10 kg era circa 8 volte maggiore nei soggetti appartenenti al terzile più basso, relativo al tasso metabolico a riposo, rispetto a quelli del terzile più alto (Tataranni et al., 2003) (J. Galgani & Ravussin, 2008). Negli studi effettuati sugli indiani Pima, è importante notare che l’aumento di peso medio non può essere interamente causato da bassi livelli di dispendio energetico, in quanto si è visto che solo il 30-40% dell’aumento delle riserve di grasso corporeo può essere ricondotto ad un deficit della spesa energetica. Questo a prova del fatto che l’aumento ponderale è un fenomeno multifattoriale (J. Galgani & Ravussin, 2008).

2.1.4 Bassa attività fisica spontanea

Un altro fattore determinante sul dispendio complessivo nelle ventiquattrore è rappresentato dall’attività fisica spontanea, che ricopre l’8-15% della spesa energetica giornaliera totale (Ravussin et al., 1986). In accordo con studi trasversali relativi ad una riduzione dell’attività fisica spontanea nei soggetti obesi, studi longitudinali sugli indiani Pima hanno dimostrato e confermato che l’attività fisica spontanea è inversamente correlata all’aumento di peso e massa grassa (Zurlo et al., 1992). 

Levine e colleghi hanno nutrito 16 sedentari con un surplus di 1000 kcal al giorno per 8 settimane, misurando i cambiamenti e l’attività della vita libera in relazione ai cambiamenti del peso corporeo. Si è visto che l’aumento di grasso variava fino a 10 volte tra gli individui sottoposti allo studio, da 0,36 a 4,23 kg, ed era inversamente proporzionale all’aumento del dispendio energetico totale (Levine et al., 1999). Poiché i cambiamenti nel metabolismo basale e l’effetto termico del cibo erano quasi irrilevanti, la resistenza all’aumento di peso e all’accumulo di grasso con la sovralimentazione è stata attribuita a cambiamenti nell’attività fisica spontanea, con un dispendio che variava da 98 a 692 kcal al giorno (J. Galgani & Ravussin, 2008).

2.1.5 Attività del sistema nervoso simpatico

Massa grassa e massa magra sono i principali determinanti del dispendio energetico a riposo; tuttavia, diversi studi hanno dimostrato che il sistema simpatico svolge un ruolo importante nella regolazione sia dell’apporto sia della spesa energetica. Un basso metabolismo a riposo per una data composizione corporea è una manifestazione della predisposizione geneticamente determinata all’obesità (J. Galgani & Ravussin, 2008). Studi effettuati sui caucasici indicano che l’attività del sistema nervoso simpatico è correlata a ciascuno dei principali componenti che influenzano il dispendio energetico: metabolismo basale, effetto termico del cibo, attività fisica spontanea, quoziente respiratorio nelle 24 ore. Studi trasversali effettuati sugli indiani Pima hanno evidenziato che gli individui inclini all’obesità presentavano tassi più bassi di attività simpatica muscolare confrontata con i caucasici di pari peso (Spraul et al., 1993) (J. Galgani & Ravussin, 2008). Coerentemente con questi studi, si è visto che soggetti obesi con bassi livelli di attività simpatica, sottoposti ad un intervento dietetico restrittivo, mostravano scarsi risultati in termini di perdita di peso (Astrup, 1995) (J. Galgani & Ravussin, 2008) (Hofbauer et al., 2004).

2.1.6 Basso livello di ossidazione dei grassi

Come già visto in precedenza, la composizione dei nutrienti è un fattore importante nel promuovere l’insorgenza dell’obesità e, di conseguenza, ci si aspetta che anche il livello di ossidazione di questi giochi un proprio ruolo nella sua eziologia (J. Galgani & Ravussin, 2008). Il quoziente respiratorio metabolico (QR) è un parametro molto utile per valutare quali macronutrienti vengono utilizzati a riposo. A causa delle differenze chimiche che li caratterizzano, carboidrati, lipidi e proteine richiedono quantità diverse di ossigeno per essere completamente metabolizzati (Bouchard, 1995). Si definisce, dunque, quoziente respiratorio metabolico il risultato del rapporto tra la quantità di anidride carbonica prodotta e l’ossigeno consumato: 

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Considerando che ogni macronutriente possiede un QR specifico, è possibile risalire alla miscela di macronutrienti metabolizzata a riposo o durante una determinata attività fisica attraverso la valutazione di tale parametro. Uno studio longitudinale effettuato su indiani Pima ha dimostrato che un alto QR nelle 24 ore, con un livello di ossidanti a basso contenuto di grassi (90° percentile per il quoziente respiratorio), era in grado di predire l’aumento di peso fino a 5 kg, con un rischio fino a 2,5 volte maggiore se confrontato ad ossidanti ad alto contenuto di grassi (10° percentile per il quoziente respiratorio) (Zurlo et al., 1990). Questo risultato si è dimostrato essere indipendente da un basso o alto livello di metabolismo basale. Risultati simili sono stati ottenuti anche nei caucasici (Seidell et al., 1992). A conferma di quanto detto, alcuni studi condotti su volontari post-obesi hanno dimostrato che gli individui che avevano recuperato parte del peso perso mostravano livelli di ossidazione del grasso inferiori rispetto a quelli che erano riusciti a mantenere il peso perso (Larson et al., 1995) (Froidevaux et al., 1993).

2.1.7 Flessibilità metabolica e regolazione del peso corporeo

Si definisce flessibilità metabolica la capacità del corpo o delle cellule di adattare l’ossidazione del carburante alla disponibilità dello stesso e all’ambiente endocrino (J. Galgani & Ravussin, 2008). È tipicamente valutata da: 1) aumento dell’indice QR da condizioni di digiuno a condizioni stimolate da presenza di glucosio e rilascio di insulina; 2) riduzione del QR in condizioni di digiuno notturno; 3) adattamento all’ossidazione dei macronutrienti disponibili in risposta ai cambiamenti nella composizione della dieta (J. E. Galgani et al., 2008). Quando la composizione dei macronutrienti della dieta viene modificata, l’ossidazione del carburante deve essere adattata per raggiungere un nuovo equilibrio. La velocità con cui si ottiene questo adattamento è maggiore quando si verifica una transizione da una dieta a basso contenuto di carboidrati ad una a contenuto di carboidrati maggiore (circa 2 giorni); tuttavia, la risposta ad un aumento del contenuto di grassi nella dieta può richiedere un periodo di adattamento fino ad una settimana (Schrauwen & Westerterp, 2000). Inoltre, è opportuno sottolineare che esiste una grande variabilità interindividuale nel tempo richiesto per raggiungere questo nuovo equilibrio (Hill et al., 1991). 

Che cosa possiamo dedurre, quindi, dai parametri finora analizzati? Possiamo affermare che il recente grande aumento della prevalenza dell’obesità è stato principalmente causato dalle moderne società urbane, nelle quali l’attività fisica spontanea si è significativamente ridotta a favore della sedentarietà, e cibo sempre più appetitoso e relativamente economico è largamente disponibile su vasta scala (J. Galgani & Ravussin, 2008). Tuttavia, in questo ambiente “obesogeno”, non tutte le persone sono affette da obesità. Questo significa che ci sono dei fattori protettivi contro l’aumento di peso, quali: alti livelli di ossidazione dei grassi, elevato tasso metabolico, attività fisica spontanea e attività del sistema nervoso simpatico (J. Galgani & Ravussin, 2008). Nonostante sia evidente, ormai, il ruolo giocato dai singoli fattori protettivi, non è ancora del tutto chiaro come questi fattori alterino l’equilibrio tra assunzione e dispendio di energia. Ad esempio, soggetti con bassi livelli di ossidazione dei grassi presentano aumentati livelli di ossidazione dei carboidrati per sostenere la richiesta di ATP, con una conseguente riduzione delle riserve di carboidrati (J. Galgani & Ravussin, 2008). Una bassa riserva di carboidrati è stata associata ad una maggiore probabilità di incorrere in un aumento ponderale, probabilmente a causa di piccoli ma significativi cambiamenti nell’assunzione di energia. I meccanismi alla base della variabilità nell’ossidazione del substrato non sono noti, ma può spiegare perché ci sia una così ampia variabilità interindividuale nell’aumento di peso nel nostro moderno stile di vita occidentalizzato (J. Galgani & Ravussin, 2008). Naturalmente, anche fattori come emozioni, consapevolezza e gratificazione influenzano i comportamenti di assunzione del cibo. Scoprire i meccanismi alla base della variabilità intersoggettiva nel metabolismo energetico potrà probabilmente migliorare la nostra capacità di identificazione delle persone a rischio di aumento ponderale. Oltre a questo aspetto, è necessario tradurre le conoscenze acquisite nella prevenzione dell’obesità stabilendo delle politiche di salute pubblica innovative e ridisegnando il nostro ambiente urbano in modo tale da favorire uno stile di vita meno sedentario (J. Galgani & Ravussin, 2008).  

2.2 Relazione tra ormoni e peso corporeo

La regolazione dell’assunzione di cibo è gestita da segnali neurali e ormonali tra l’intestino e il sistema nervoso centrale (SNC) (Apovian, 2016). Ormoni come glucagone, insulina, peptide YY, ossintomodulina, leptina, grelina e colecistochinina sono coinvolti nel controllo dell’appetito e, in generale, nel controllo dell’assunzione di cibo (Apovian, 2016). 

2.2.1 Glucagon-like peptide 1 (GLP-1)

Alcuni peptidi biologicamente attivi derivano dal proglucagone (Bataille & Dalle, 2014) (Apovian, 2016). Uno di questi è il GLP-1, che tratteremo nel dettaglio nel capitolo successivo. Questo peptide stimola la secrezione di insulina glucosio-dipendente e, al contempo, inibisce il rilascio di glucagone. Tra gli effetti non glicemici si riscontra la perdita di peso ma, indipendentemente da questo aspetto, altri effetti di questa sostanza includono benefici a livello del sistema cardiovascolare, dei reni e a livello neurologico, insieme a modificazioni della percezione del gusto (Apovian, 2016).

2.2.2 Ossintomodulina

L’ossintomodulina è un duplice agonista endogeno sia del recettore del glucagone sia del recettore del GLP-1. Essa regola la secrezione di acido gastrico e degli elettroliti a livello intestinale, esercitando una funzione regolatoria sull’assunzione di cibo, sopprimendo la fame e portando, quindi, ad una complessiva perdita di peso. Inoltre, essa aumenta il dispendio energetico e inibisce il segnale oressigenico generato dalla grelina. Si è visto che la somministrazione esogena di ossintomodulina in topi insulino-resistenti ha migliorato la loro tolleranza al glucosio e questo effetto è stato osservato anche in pazienti affetti da diabete di tipo 2. Tuttavia, l’utilizzo farmacologico dell’ossintomodulina è estremamente limitato a causa della sua breve emivita di circa 10 minuti. Ad ogni modo, in virtù delle sue proprietà, l’ossintomodulina può essere un buon target per lo sviluppo di farmaci da utilizzare nel trattamento dell’obesità (Apovian, 2016) (Bataille & Dalle, 2014).

2.2.3 Peptide YY (PYY)

Il peptide YY, costituito da 36 aminoacidi, è prodotto principalmente dalle cellule L enteroendocrine del tratto gastrointestinale distale. Sono state individuate due principali forme endogene di questo peptide, PYY(1-36) e PYY(3-36); quest’ultima risulta la forma predominante circolante (Guida & Ramracheya, 2020). L’enzima proteolitico espresso ubiquitariamente, dipeptil peptidasi 4 (DPP-4), converte PYY(1-36) in PYY(3-36), alterandone così la specificità recettoriale e gli effetti biologici. Il peptide YY svolge la sua azione biologica interagendo con un cluster di recettori appartenenti alla famiglia del neuropeptide Y (NPY), di cui esistono quattro tipi: NPY1R, NPY2R, NPY4R e NPY5R (Guida & Ramracheya, 2020). Mentre PYY(1-36) si lega a tutti e quattro i sottotipi conosciuti, PYY(3-36) mostra una maggiore affinità per NPY2R, attraverso la cui interazione si esplicano gli effetti anoressigenici sul cervello (Guida & Ramracheya, 2020). Il peptide YY regola l’assunzione di cibo sia nelle persone magre sia nelle persone affette da obesità. Il suo effetto anoressigeno non è ancora del tutto chiaro; tuttavia, si è riscontrato che le concentrazioni plasmatiche di PYY sono alte nelle persone affette da anoressia nervosa e basse nei soggetti obesi. Inoltre, il PYY potrebbe aumentare la termogenesi postprandiale, il tasso metabolico a riposo e il quoziente respiratorio nelle 24 ore (Apovian, 2016).

2.2.4 Colecistochinina (CCK)

La colecistochinina è un peptide di 58 aminoacidi secreto dalle cellule I enteroendocrine in risposta ad un pasto, ed agisce prevalentemente su due recettori accoppiati a proteina G specifici: CCK1 e CCK2. Il recettore CCK1 è ampiamente espresso a livello intestinale, mentre il recettore CCK2 è il sottotipo predominante nel cervello e nello stomaco (Simpson et al., 2012). CCK è ampiamente distribuita nel cervello e nel sistema nervoso centrale, ma è anche localizzata in siti periferici comprese le cellule endocrine extraintestinali e i cardiomiociti. Fu scoperta per la prima volta nel sistema gastrointestinale, ma il suo ruolo nella digestione non è ancora del tutto chiaro (Simpson et al., 2012) (Apovian, 2016). Essa svolge un’azione sulla soppressione della fame attraverso l’interazione con il recettore CCK1. CCK non sembra avere alcun impatto sullo svuotamento gastrico. Inoltre, sembra che possa avere un effetto sinergico con la leptina sull’inibizione dell’assunzione di cibo, e sembra agire anche nella regolazione dell’ansia, dell’analgesia e del comportamento mediato dalla dopamina (Apovian, 2016).

2.2.5 Leptina

La leptina è responsabile della comunicazione al cervello della disponibilità e dello stoccaggio di energia; l’ipotalamo risponde a questi segnali controllando il comportamento e le risposte metaboliche dell’organismo (Apovian, 2016). La leptina può sopprimere l’appetito e aumentare il dispendio energetico, con una conseguente perdita di peso. Tuttavia, quando la segnalazione della leptina non funziona correttamente, si può verificare un aumento di peso (Apovian, 2016). L’obesità, di conseguenza, risulta associata ad una resistenza alla leptina, mentre la condizione di normopeso è associata ad assenza di leptino-resistenza. La resistenza alla leptina e l’obesità sono probabilmente fattori ereditari. Una prima ipotesi è che le persone obese siano resistenti alla segnalazione della leptina. In pazienti obesi sono state segnalate concentrazioni di leptina sierica più elevate rispetto a quelle rilevate in pazienti normopeso (Apovian, 2016) (Lee et al., 2001). Inoltre, è stata rilevata una forte correlazione tra la concentrazione di leptina sierica e la percentuale di grasso corporeo, concentrazione sierica di insulina a digiuno ed età (Considine et al., 1996) (Apovian, 2016).

2.2.6 Adiponectina

L’adiponectina sembra svolgere un ruolo nella modulazione del metabolismo del glucosio e dei lipidi nei tessuti insulino-sensibili (Apovian, 2016). Essa aumenta la sensibilità all’insulina, riduce la produzione di glucosio a livello del fegato e stimola l’ossidazione degli acidi grassi (Apovian, 2016). Le concentrazioni plasmatiche di adiponectina diminuiscono nei soggetti insulino-resistenti e nei pazienti affetti da diabete di tipo 2. L’obesità è associata a carenza di adiponectina, il che rende questo ormone un possibile bersaglio per interventi terapeutici (Moehlecke et al., 2016) (Apovian, 2016).

2.2.7 Grelina

La grelina fu scoperta nel 1999 come ligando del recettore dell’ormone della crescita (Espinoza García et al., 2021). La sua principale funzione è quella di stimolare l’appetito nei momenti di acuto bisogno metabolico nel periodo preprandiale, risultando quindi inversamente correlata all’indice di massa corporea (Espinoza García et al., 2021). La grelina, pertanto, è un potente ormone oressigeno che stimola l’assunzione di cibo e diminuisce il consumo di energia. Alti livelli di grelina sono associati ad un aumento del peso corporeo, soprattutto per quanto riguarda la massa grassa. Considerato il suo ruolo biologico oressizzante, si evince che i livelli di grelina siano massimi 1-2 ore prima di un pasto e diminuiscano subito dopo (Apovian, 2016). Nelle persone sovrappeso e obese, i livelli di grelina a digiuno sono spesso inferiori rispetto alle persone normopeso (Tschöp et al., 2001). Sebbene si possa presumere che le persone obese presentino livelli di grelina più alti, diversi studi dimostrano che tali livelli sono in realtà inferiori rispetto alle persone normopeso. La maggior parte degli individui obesi presenta un’inadeguata soppressione postprandiale di grelina; il fatto che i suoi livelli permangano elevati anche a stomaco pieno causa un continuo senso di fame e una maggiore difficoltà nella perdita di peso (Makris et al., 2017).

2.3 Obesità e patologie associate

Ipotiroidismo, sindrome di Cushing, sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e alcuni problemi neurologici sono associati ad un incremento ponderale (Apovian, 2016). 

2.3.1 Ipotiroidismo

La relazione tra ipotiroidismo e obesità è una questione piuttosto complessa. Gli ormoni tiroidei sono legati alla composizione corporea in quanto parte integrante della regolazione del metabolismo basale e della termogenesi; essi influenzano anche il metabolismo del glucosio e dei lipidi, l’ossidazione dei grassi e l’assunzione di cibo (Longhi & Radetti, 2013) (Apovian, 2016). Un aumento dei livelli del TSH è stato associato ad un aumento del BMI, suggerendo che l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide abbia un impatto notevole sull’obesità, portando a cambiamenti della funzionalità tiroidea molto simili a quelli che si possono riscontrare nell’ipotiroidismo primario (Kitahara et al., 2012) (Apovian, 2016). Tuttavia, spesso l’aumento di peso associato all’ipotiroidismo è causato da ritenzione idrica, piuttosto che da un’aumentata massa grassa. Infatti, studi sulla composizione corporea effettuati prima e dopo il trattamento farmacologico per l’ipotiroidismo hanno dimostrato che la perdita di peso riscontrata era dovuta perlopiù ad una diminuzione della massa magra corporea piuttosto di quella grassa (Apovian, 2016). 

2.3.2 Sindrome di Cushing

La Sindrome di Cushing si tratta di una malattia rara, causata da un’esposizione prolungata ad un eccesso di glucocorticoidi. La causa più comune della Sindrome di Cushing è la somministrazione di dosi farmacologiche di glucocorticoidi per via orale, parenterale o, più raramente, topica (Shibli-Rahhal et al., 2006). L’eccesso di glucocorticoidi endogeni può derivare da un tumore ipofisario secernente ACTH (ormone adrenocorticotropo), oppure dalla produzione ectopica (non ipofisaria) di ACTH o da tumore surrenalico. In tutti i soggetti affetti si verifica una perdita della variazione diurna della secrezione di ACTH e cortisolo, che porta ad un ipercortisolismo prolungato (Shibli-Rahhal et al., 2006). I pazienti affetti dalla Sindrome di Cushing possono sviluppare molteplici problemi metabolici, tra cui obesità, iperglicemia, ipertensione, depressione, bassa massa ossea, atrofia muscolare e ipogonadismo. Le manifestazioni cutanee dell’ipercortisolismo comprendono atrofia cutanea, lividi eccessivi, striature viola, ridotta guarigione delle ferite, ipertricosi vellutata e irsutismo (Shibli-Rahhal et al., 2006). Pazienti affetti da obesità che soffrono di un lieve ipercortisolismo, diabete e ipertensione possono avere la Sindrome di Cushing (Boscaro et al., 2000) (Apovian, 2016). Tra gli aspetti clinici si menzionano un improvviso aumento di peso e obesità centrale. In uno screening effettuato da Tiryakioglu e colleghi è emerso che su 150 pazienti obesi il 9,33% di essi aveva la Sindrome di Cushing, suggerendo che i pazienti con obesità dovrebbero essere regolarmente sottoposti a questo tipo di screening (Tiryakioglu et al., 2010) (Apovian, 2016).

2.3.3 Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS)

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo endocrino comune che si verifica nel 5-15% delle donne in età riproduttiva, associata a comorbilità significative legate alla qualità della vita. La valutazione della qualità della vita relativa alla salute (Health-related Quality of Life, HRQOL) è multidimensionale e comprende aspetti fisici, emotivi e sociali, correlati ad una specifica patologia e al suo trattamento. Diverse revisioni sistematiche hanno dimostrato che la sindrome dell’ovaio policistico ha un impatto complessivamente negativo sulla HRQOL. Inoltre, studi trasversali riportano un aumento dei sintomi associati ad ansia e depressione associati a PCOS. La PCOS è definita attualmente come un disturbo prevalentemente iperandrogenico, in cui le pazienti presentano una costellazione di segni e sintomi che includono necessariamente iperandrogenismo clinico e biochimico, insieme a disfunzione ovulatoria e morfologia dell’ovaio (Murri et al., 2014) (Apovian, 2016). La sindrome dell’ovaio policistico è caratterizzata da cicli mestruali irregolari, eccessiva crescita di peli, infertilità, acne, cisti ovariche, pelle grassa, chiazze di pelle scura e ispessita e, in alcuni casi, aumento ponderale o obesità (Apovian, 2016). Inoltre, il 50-70% delle donne affette da PCOS presenta obesità addominale e insulino-resistenza con iperinsulinismo compensatorio, indipendentemente dal fatto che siano obese o meno (Murri et al., 2014). Secondo l’American College of Obstetrics and Gynecology, approssimativamente l’80% delle donne affette da PCOS è risultata obesa (Polycystic Ovary Syndrome (PCOS). American Congress of Obstetrics and Gynecology (ACOG) Website, 2016). L’aumento del grasso corporeo è associato ad un aumento dei livelli di androgeni nelle donne con ovaio policistico. Nella popolazione generale affetta da PCOS, la perdita di peso è tipicamente associata ad un miglioramento della qualità della vita e dei sintomi (Polycystic Ovary Syndrome (PCOS). American Congress of Obstetrics and Gynecology (ACOG) Website, 2016). Perdere peso può, quindi, avere un effetto benefico sull’equilibrio metabolico di queste donne (Apovian, 2016). 

2.3.4 L’obesità come fattore di rischio per l’insorgenza di altre patologie

È stato dimostrato che l’obesità aumenta il rischio di insorgenza di malattie croniche come l’artrite reumatoide. Una metanalisi di 13 studi, che hanno coinvolto 400.609 partecipanti, ha dimostrato che il rischio relativo di artrite reumatoide era pari a 1.21 per i pazienti obesi, e 1.05 per i pazienti sovrappeso. Per ogni aumento del BMI di 5 kg/m2 è stato riscontrato un aumento del 13% del rischio di artrite reumatoide (Apovian, 2016) (Feng et al., 2016). 

Rinite di tipo non allergico – Per quanto riguarda la rinite di tipo non allergico, adulti e bambini sovrappeso o obesi presentano un rischio di incorrere nella patologia, con valori di OR di 1.43 per gli adulti e 0.88 per i bambini (Han et al., 2016). 

Disturbo depressivo maggiore (MDD) – L’obesità è inoltre un fattore di rischio per lo sviluppo del disturbo depressivo maggiore (MDD) (Apovian, 2016) (Kasen et al., 2008). Persone con un BMI superiore a 30 hanno mostrato un rischio leggermente più elevato di sviluppare depressione (Gibson-Smith et al., 2016) (Apovian, 2016). Tuttavia, non è ancora stata chiarita quale relazione possa sussistere tra obesità e sviluppo o persistenza di depressione. Piuttosto, è stata segnalata una connessione temporale tra obesità e disturbo d’ansia generalizzato (GAD). Donne con BMI pari o superiore a 30 avevano maggiori possibilità di sviluppare un disturbo d’ansia generalizzato, aspetto non verificato in donne con BMI uguale o superiore a 25. Le persone obese hanno mostrato un rischio del 55% di sviluppare un disturbo depressivo e, viceversa, persone depresse hanno mostrato una percentuale del 58% di rischio di diventare obese (Gibson-Smith et al., 2016). Questo aspetto verrà poi approfondito nel paragrafo riguardante la relazione tra terapie farmacologiche e obesità. 

Cancro – Infine, pazienti obesi presentano un rischio maggiore di sviluppare forme di cancro. Sono stati valutati i dati raccolti da studi prospettici effettuati dal Clinical Practice Research Datalink del Regno Unito, ponendo l’attenzione sui valori di BMI e la prevalenza di 22 tipi diversi di tumori per 5,2 milioni di persone (Bhaskaran et al., 2014). Il BMI medio della popolazione era di 25,5 kg/m2; il 3,8% ha sviluppato una forma qualsiasi di tumore, mentre il 3,2% ha sviluppato una forma di tumore tra le 22 prese in esame. 13 dei 22 tumori erano associati ad una condizione di sovrappeso o obesità; di questi, il 41% dei casi di cancro uterino e più del 10% del cancro alla cistifellea, reni, fegato e colon (Bhaskaran et al., 2014). Un BMI più elevato era correlato positivamente con un rischio maggiore di sviluppare forme di cancro uterino, alle ovaie, alla cistifellea, alla tiroide, al fegato insieme alla leucemia. Una relazione simile tra obesità e cancro è stata osservata nei decessi correlati al cancro negli Stati Uniti (Calle et al., 2003). La morte per cancro veniva attribuita all’essere sovrappeso o obesi con percentuali variabili dal 4,2% al 14,2% per gli uomini, e dal 14,3% al 19,8% per le donne (Calle et al., 2003). Se le persone riuscissero a mantenere un BMI inferiore o uguale a 25 kg/m2, si stima che circa si potrebbero evitare circa 90.000 morti all’anno per cancro (Calle et al., 2003) (Apovian, 2016). 

2.4 Farmaci per il trattamento di altre patologie e conseguente aumento di peso

Alcune classi di farmaci, come antidepressivi, antipsicotici atipici, farmaci antiepilettici e beta-bloccanti, sono stati associati ad un aumento di peso. 

Antidepressivi – Per quanto concerne il trattamento del disturbo depressivo maggiore, i trattamenti farmacologici comuni possono aumentare il rischio di obesità. Grundy e colleghi hanno riferito che le donne che assumevano antidepressivi presentavano una probabilità maggiore di essere obese (Grundy et al., 2014). Sembra che l’aumento di peso si verifichi in un’elevata percentuale di pazienti che assumono antidepressivi (Apovian, 2016). Uno studio condotto su 362 pazienti (perlopiù donne) in terapia con antidepressivi ha dimostrato che l’uso degli stessi ha favorito l’aumento di peso nel 55.2% dei pazienti, con un guadagno medio di 4.97 ± 6.16 kg, solitamente nei primi tre mesi di trattamento (Uguz et al., 2015) (Apovian, 2016). Il trattamento farmacologico con escitalopram, sertralina o duloxetina è associato ad un significativo aumento ponderale: i pazienti guadagnano un peso maggiore o uguale al 7% del loro peso nei primi 3 mesi di terapia. Per quanto riguarda, invece, il trattamento farmacologico con mirtazapina, citalopram, venlafaxina o paroxetina, è stato associato un aumento ponderale uguale o superiore al 20% (Uguz et al., 2015) (Apovian, 2016). Specifiche classi di antidepressivi sono state associate ad un maggiore rischio di aumento ponderale rispetto ad altre; ad esempio, l’associazione di NaSSA (Noradrenergic and Specific Serotoninergic Antidepressant) ai classici farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono associati ad una maggiore incidenza di aumento ponderale rispetto al trattamento farmacologico con i soli SSRI (Galling et al., 2015).

Antipsicotici – I farmaci antipsicotici, utilizzati come trattamento aggiuntivo e complementare del disturbo depressivo maggiore, sono associati ad aumento ponderale, diabete e disturbi lipidici. Uno studio randomizzato che ha preso in esame l’efficacia degli antipsicotici tipici ha riportato un aumento ponderale superiore al 7% rispetto al peso di partenza nel 30% dei pazienti in terapia con olanzapina, 16% dei pazienti trattati con quetiapina, 14% dei pazienti che assumenvano risperidone, 12% dei pazienti in terapia con perfenazina e 7% dei pazienti trattati con ziprasidone (Lieberman et al., 2005). Un trattamento farmacologico prolungato con i suddetti farmaci, anche a basse dosi, può portare ad aumento dei livelli di lipidi, trigliceridi e glucosio nel sangue, portando infine ad un aumento ponderale (P. Wang & Si, 2013). Si raccomanda di informare i pazienti prima di far loro iniziare un trattamento farmacologico di questo tipo e di prendere in considerazione l’aumento ponderale possibile per tutelare la salute del paziente stesso (Apovian et al., 2015a). Una volta prescritto un antipsicotico, le linee guida indicano che il medico dovrebbe tenere monitorati parametri quali peso, altezza, BMI e circonferenza vita del paziente durante il trattamento con questi farmaci; se l’aumento ponderale supera il 5% del peso iniziale, il medico dovrebbe prendere in considerazione un farmaco diverso (American Diabetes Association et al., 2004).

Ipoglicemizzanti – Molti farmaci ipoglicemizzanti sono stati associati ad un guadagno di peso, con la possibilità che i pazienti aumentino fino a 10 kg nei primi 6 mesi di trattamento (Apovian et al., 2015a). L’aumento di peso riportato è di circa 3 kg per i tiazolidindioni, 1.12 kg per le sulfoniluree e 1.7-2.5 kg per l’insulina (Apovian et al., 2015a). Altre classi di farmaci, come gli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT-2), gli agonisti del recettore del GLP-1 e gli inibitori della dipeptil peptidasi 4 (DPP-4), hanno dimostrato essere terapie con effetto di ridurre o di mantenere invariato il peso corporeo (Apovian et al., 2015a). Anche la metformina è correlata ad una diminuzione del peso. A pazienti obesi che necessitano inoltre un trattamento farmacologico per il diabete di tipo 2 dovrebbero essere prescritti farmaci che non inducano un ulteriore aumento ponderale come trattamento di prima o seconda scelta. Le linee guidano riportano che ai pazienti trattati con insulina dovrebbero essere prescritti anche farmaci complementari come metformina o agonisti GLP-1 per compensare l’aumento ponderale indotto dall’insulina (Apovian et al., 2015a).

Antiepilettici – Anche farmaci antiepilettici come l’acido valproico, la carbamazepina e il gabapentin sono stati associati ad un incremento ponderale. L’aumento di peso più significativo è stato segnalato con l’acido valproico, con un intervallo di 5-49 kg (Ness-Abramof & Apovian, 2005).

Corticosteroidi – La terapia con i farmaci steroidei è anch’essa associata ad aumento ponderale (Apovian, 2016). Ai glucocorticoidi è stato associato un aumento di peso del 4,4% dopo un anno di trattamento e tale aumento viene mantenuto anche dopo l’interruzione della terapia farmacologica (Wung et al., 2008) (Apovian et al., 2015a). Le linee guida sconsigliano il trattamento in cronico con farmaci steroidei in pazienti sovrappeso o obesi, per non peggiorare la loro condizione (Wung et al., 2008) (Apovian et al., 2015a).

Beta-bloccanti – Infine, anche in beta-bloccanti sono stati associati ad aumento di peso nei pazienti trattati. Uno studio condotto su 3582 pazienti, di cui 173 in terapia con beta-bloccanti, ha esaminato la perdita di peso in seguito ad un regime alimentare ad intensiva restrizione calorica di 900 kcal/die. Da questo studio è emerso che i partecipanti in terapia con farmaci beta-bloccanti hanno perso in media 0,67 kg in meno rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo, con una diminuzione inferiore della circonferenza vita (24.2 cm e 25.2 cm, rispettivamente) (Azar et al., 2016). 

Da questi dati si evince che l’obesità è un serio problema multifattoriale, che vede l’interazione tra fattori genetici, socioeconomici, culturali i quali sono associati a comorbilità esistenti o ai loro trattamenti (Apovian, 2016). La prevalenza di soggetti obesi continua ad essere elevata, così come i costi associati per l’assistenza sanitaria di questi pazienti. Un intervento precoce e un trattamento efficace sono imprescindibili e necessari al fine di ridurre i costi e migliorare lo stato di salute delle persone affette (Apovian, 2016).

Si spera che, sulla base dei dati presenti in letteratura, i professionisti sanitari vengano sensibilizzati a fare una maggiore prevenzione e ad intervenire prontamente quando individuano soggetti a rischio o che già soddisfano i criteri per la definizione di obesità. La consapevolezza dei fattori di rischio, soprattutto di quelli prevenibili, è fondamentale affinché i medici e gli operatori sanitari in generale possano spiegare ai pazienti come evitarli o minimizzarli (Apovian, 2016). 

3. IL SISTEMA INCRETINICO 

L’obesità è stata riconosciuta come un problema mondiale, in particolare per il rischio di sviluppare resistenza insulinica e diabete di tipo 2. Come abbiamo precedentemente affermato, la regolazione del peso corporeo e dell’assunzione di cibo è mediata da segnali neurali e ormonali tra intestino e cervello (Apovian, 2016). Le concentrazioni ematiche di questi ormoni aumentano dopo un pasto e sono proporzionali all’apporto calorico e alla composizione del pasto stesso. Vediamo ora nel dettaglio gli ormoni incretinici (Formoso G & Consoli A, 2016).

Gli ormoni incretinici, GIP (glucose-dependent insulinotropic polypeptide) e GLP-1 (glucagon-like peptide-1), sono peptidi intestinali che vengono secreti dopo l’assunzione di nutrienti e stimolano la produzione di insulina in seguito all’aumento della glicemia (M. Nauck et al., 1986) (D’Alessio, 2016). Questo concetto nasce dall’osservazione che una determinata quantità di glucosio ingerita per via orale è in grado di produrre una risposta insulinemica maggiore della stessa quantità di glucosio somministrata per via endovenosa (M. Nauck et al., 1986). Gli esseri umani sani mantengono la glicemia entro limiti relativamente ristretti. Questo implica un’omeostasi finemente regolata dal pancreas endocrino, che secerne rapidamente insulina in quantità adeguate al pasto consumato (D’Alessio, 2016). Insieme, GIP e GLP-1 sono responsabili dell’effetto incretinico che, come precedentemente affermato, consiste in una risposta secretoria dell’insulina da due a tre volte superiore in seguito alla somministrazione orale di glucosio rispetto a quella endovenosa (M. Nauck et al., 1986). Le due incretine, quindi, vengono secrete come risposta all’ingestione di glucosio o pasti misti, in quantità proporzionali alle dimensioni del pasto e stimolano la secrezione di insulina in presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (D’Alessio, 2016). Questo sistema di controllo consente una rapida e appropriata risposta da parte delle cellule β pancreatiche, che risulta essere necessaria per il controllo della glicemia postprandiale (D’Alessio, 2016). GLP-1 e GIP condividono diverse altre caratteristiche, oltre alla sintesi nell’intestino. Entrambi si legano a recettori accoppiati alle proteine G espressi sulle cellule β pancreatiche, stimolando il rilascio di insulina solo in presenza di concentrazioni ematiche di glucosio superiori al basale; una volta terminata la loro funzione, il loro effetto insulinotropico viene inattivato dall’enzima dipeptidil peptidasi 4 (DPP-4) (D’Alessio, 2016). Tuttavia, ci sono importanti differenze tra GLP-1 e GIP per quanto riguarda il controllo glicemico. In primo luogo, GLP-1 sopprime la secrezione di glucagone, stimolando il rilascio di insulina al fine di abbassare la glicemia; al contrario, GIP promuove il rilascio di glucagone. In secondo luogo, GIP presenta un intervallo molto dinamico di secrezione postprandiale, fino a 10 volte maggiore, mentre i cambiamenti di GLP-1 plasmatico sono molto contenuti, di solo 1,5-2 volte (Figura 2) (D’Alessio, 2016). Infine, gli effetti del GLP-1 sono mantenuti nei diabetici, mentre il ruolo del GIP risulta attenuato in un contesto di iperglicemia cronica (D’Alessio, 2016). 

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Figura 2. Livelli plasmatici di GLP-1 e GIP in soggetti sani dopo un pasto di nutrienti misti liquidi di 450 kcal. Dopo il pasto, le concentrazioni plasmatiche di GIP e GLP-1 sono aumentate di 10 volte e 2 volte, rispettivamente (D’Alessio, 2016).

Nei soggetti con diabete di tipo 2, l’effetto incretinico risulta diminuito o del tutto assente (D’Alessio, 2016). Questa è la conseguenza di una sostanziale riduzione dell’efficacia del GIP sul pancreas endocrino. Tuttavia, gli effetti insulinotropici e glucagonostatici del GLP-1 vengono preservati nei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 quando trattati farmacologicamente con analoghi del GLP-1, i quali vanno a legarsi ai recettori del GLP-1 riducendo significativamente il glucosio plasmatico e migliorando il profilo glicemico (D’Alessio, 2016). Il GLP-1, inoltre, presenta molteplici effetti su diversi organi e sistemi, in particolare svolge un ruolo di primaria importanza sulla riduzione dell’appetito e dell’assunzione di cibo, portando ad una perdita di peso a lungo termine (M. A. Nauck & Meier, 2018). GIP e GLP-1 presentano anche effetti a livello delle cellule adipose, ossa e sistema cardiovascolare (M. A. Nauck & Meier, 2018). In particolare, hanno assunto una certa rilevanza in seguito alle scoperte sulla base delle quali gli agonisti del recettore del GLP-1, come la Liraglutide, siano in grado di ridurre gli eventi cardiovascolari, prolungando la vita dei pazienti ad alto rischio affetti da diabete mellito di tipo 2 (M. A. Nauck & Meier, 2018). Per questi motivi, gli ormoni incretinici rivestono un ruolo importante dal punto di vista fisiologico, essendo coinvolti nella fisiopatologia dell’obesità e del diabete di tipo 2, e presentano un potenziale terapeutico che può essere ricondotto agli effetti fisiologici di queste sostanze (M. A. Nauck & Meier, 2018).

3.1. Glucagon-like peptide 1 (GLP-1)

Glucagon-like peptide 1 (GLP-1) è un peptide di 30 aminoacidi secreto dalle cellule L dell’intestino tenue e crasso e dai neuroni che si trovano nel nucleus tractus solitarius (NTS) del tronco encefalico caudale mediante elaborazione differenziale del proglucagone (Figura 3). Il GLP-1 endogeno è rapidamente degradato dall’enzima dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4) a metaboliti inattivi e, quindi, ha una breve emivita che si aggira attorno ai 10 minuti (Holst, 2007a). 

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Figura 3. Panoramica schematica dell’elaborazione del proglucagone tessuto-specifica nell’asse intestino-cervello (A) e nel pancreas (B) (Fonte: Frontiers in Endocrinology, May 2021, Volume 12, Article 689678, n.d.).

Esso svolge un ruolo essenziale per la normale tolleranza al glucosio e agisce attraverso il legame con il suo recettore specifico, GLP-1r, espresso su un’ampia gamma di cellule e tessuti bersaglio, tra cui le cellule β pancreatiche, un sottoinsieme di cellule epiteliali polmonari, cellule gastriche e intestinali, miociti cardiaci atriali, neuroni in diverse aree del cervello e nervo vago afferente (Pyke et al., 2014). 

Il recettore del GLP-1 è associato a proteina G, la stessa famiglia di recettori a cui appartengono anche i recettori del GIP e glucagone (Mayo et al., 2003) (Figura 4).

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Figura 4: Recettore accoppiato a proteine G (fonte: Fisiopatologia medica, Terza edizione, Edra, 2018).

In questo sistema, GLP-1 si lega al suo recettore specifico e, attraverso la subunità Gαs, stimola l’adenilato ciclasi con conseguente aumento dei livelli di AMP ciclico (cAMP) (Smith et al., 2019). È stato dimostrato che questo aumento dei livelli di cAMP determini l’attivazione di due vie di segnalazione: quella dipendente dalla proteina chinasi A (PKA) e quella della proteina di scambio attivata direttamente dai processi dipendenti dal cAMP (EPAC) (Smith et al., 2019). L’attivazione di questi meccanismi consente al GLP-1 di avviare un’ampia varietà di meccanismi all’interno della cellula al fine di promuovere il rilascio di insulina e i processi correlati (Smith et al., 2019). L’attivazione di PKA ed EPAC provoca l’inibizione dei canali del potassio regolati dall’ATP, aumenta l’attività dei canali del calcio voltaggio-dipendenti di tipo L e innesca l’apertura di canali cationici non specifici (Smith et al., 2019). Nel complesso, queste azioni portano ad un aumento dei livelli di calcio intracellulare, migliorando così la secrezione di insulina indotta dal calcio. In particolare, l’inibizione dei canali del potassio regolati dall’ATP porta ad un aumento della depolarizzazione della membrana indotta dal glucosio, migliorando la sensibilità cellulare al glucosio stesso (Smith et al., 2019) (Figura 5).

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Figura 5: Segnalazione intracellulare del GLP-1 mediata attraverso la subunità Gαs.

Altri effetti del GLP-1 sulle cellule β pancreatiche possono o meno derivare dalla segnalazione mediata dalla subunità Gαs. È stato dimostrato, infatti, che il recettore del GLP-1 si associa, in colture cellulari, non solo a Gαs, ma anche a Gαq, Gα0 e Gα1. Esistono anche prove a sostegno del fatto che GLP-1 avvii una mobilizzazione del calcio intracellulare mediata dalla fosfolipasi C (PLC), probabilmente attraverso la subunità Gαq (Gromada et al., 1995). 

Il recettore è ampiamente distribuito nelle isole pancreatiche, cervello, cuore, reni e tratto gastrointestinale, incluso lo stomaco, dove è espresso a livello delle cellule parietali. Tuttavia, la sua funzione in tutti questi siti non è del tutto nota (Holst, 2007b). Sulla base del classico modello dell’effetto incretinico, è stato spesso ipotizzato che il GLP-1 interagisca con il suo recettore, attraverso la circolazione, come un ormone. Tuttavia, ci sono diverse problematiche che sembrano mettere in discussione questa visione. 

Innanzitutto, il GLP-1 circola in concentrazioni relativamente basse rispetto ad altri ormoni gastrointestinali, come GIP o PYY. Inoltre, i cambiamenti nella concentrazione plasmatica di GLP-1, dopo aver mangiato, sono modesti (Vilsbøll et al., 2003). Il ristretto intervallo delle concentrazioni plasmatiche del GLP-1 è in netto contrasto con i dati sperimentali che mostrano un ampio raggio d’azione. Infatti, negli adulti sani, l’effetto insulinotropo del GLP-1 aumenta di 5-6 volte il livello basale. Per questi motivi, la discordanza tra le concentrazioni di peptide circolante e la grandezza dei suoi effetti è la prima sfida alla visione convenzionale secondo la quale il GLP-1 agisce come un ormone (Aulinger et al., 2015). 

Un secondo, e forse più convincente, motivo per mettere in discussione un meccanismo d’azione endocrino del GLP-1 è la sua rapida inattivazione nella circolazione. Il GLP-1 è metabolizzato dall’enzima ubiquitario DPP-4, che scinde la porzione N-terminale costituita dai due aminoacidi His-Ala, lasciando in circolo il frammento inattivo GLP-1(9-36)NH2 (Smith et al., 2019). Il metabolismo del GLP-1 da parte dell’enzima DPP-4 si traduce in un’emivita plasmatica di 1-2 minuti nei mammiferi e, poiché il frammento residuo della degradazione enzimatica GLP-1(9-36)NH2 è inattivo, questo processo attenua fortemente l’effetto complessivo della circolazione del peptide (Deacon et al., 1995) (Jessen et al., 2012) (Figura 6).

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Figura 6: Meccanismo d’azione dell’enzima DPP-4 e suoi analoghi su GIP e GLP-1.

È stato stimato che quantità considerevoli di GLP-1 vengano inattivate già nel tempo che intercorre tra la secrezione intestinale e il raggiungimento della vena porta, tant’è che solo una minima parte di questo peptide riesce a raggiungere intatta la circolazione. Nel complesso, queste osservazioni sollevano dubbi e argomentazioni circa il classico modello endocrino dell’effetto incretinico del GLP-1 (Hansen et al., 1999). 

Il GLP-1 esercita la sua funzione incretinica mediante stimolazione del rilascio di insulina; tuttavia, essendo quest’ultima glucosio-dipendente, in presenza di concentrazioni ematiche di glucosio inferiori a quelle fisiologiche, l’azione insulinogoga del GLP-1 viene meno. Il GLP-1 regola anche la secrezione di glucagone, sopprimendolo; questo avviene in parte mediante un effetto diretto sulle cellule α pancreatiche, ma anche attraverso un effetto indiretto, attraverso la stimolazione della secrezione di somatostatina che, a sua volta, esercita un effetto inibitorio sulla secrezione di glucagone (Vilsbøll et al., 2002) (Figura 7).

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Figura 7: Ruolo regolatorio delle incretine.

Il GLP-1 presenta anche degli effetti extrapancreatici, coinvolti nella regolazione del metabolismo e importanti per le potenziali applicazioni terapeutiche di questa sostanza. In uno studio condotto da Flint e colleghi, alcuni volontari sani sono stati sottoposti ad infusione endovenosa di GLP-1 pochi minuti prima dell’ingestione di un pasto standard, riscontrando che l’infusione di GLP-1 aumentava la sensazione di pienezza e sazietà rispetto al placebo, e riduceva di circa il 12% le calorie ingerite quando il pasto proposto era ad libitum (Flint et al., 1998). È logico ritenere, dunque, che un rallentamento dello svuotamento gastrico, accompagnato da un aumento del senso di sazietà (con conseguente riduzione dell’assorbimento dei carboidrati), rappresenti un fattore estremamente utile nel trattamento di individui affetti da diabete. Infatti, è auspicabile che questi ultimi seguano un regime alimentare ipocalorico nel quale vengano drasticamente ridotti i picchi glicemici postprandiali, che rappresentano un ostacolo al controllo metabolico. 

Un altro aspetto di grande interesse riguarda il ruolo del GLP-1 nel mantenere la salute delle cellule β pancreatiche. Infatti, studi effettuati su modelli animali hanno dimostrato che il GLP-1 agisce attraverso la stimolazione della neogenesi, crescita e proliferazione di questo tipo di cellule. La neogenesi avviene attraverso la differenziazione delle cellule precursori nell’epitelio duttale pancreatico in cellule insulino-secernenti; la proliferazione, invece, avviene attraverso la divisione e differenziazione di β-cellule già esistenti (Bulotta et al., 2002). Inoltre, uno studio effettuato su isole pancreatiche umane isolate ha dimostrato che, se sottoposte a cinque giorni di trattamento in vitro con GLP-1, queste riducevano significativamente l’apoptosi nei preparati (Farilla et al., 2003). Queste evidenze sono di notevole rilevanza nel diabete di tipo 2, nel quale la progressiva disfunzione delle cellule β pancreatiche costituisce uno dei principali meccanismi fisiopatologici della malattia. 

Volendo riassumere quanto esposto finora, possiamo affermare che gli effetti incretino-mimetici del GLP-1 sono:

  • riduzione della glicemia a digiuno: a causa dell’aumento della secrezione di insulina dalle cellule β pancreatiche e soppressione della secrezione di glucagone glucosio-dipendente;
  • riduzione della glicemia postprandiale, secondaria ad un rallentato svuotamento gastrico
  • miglioramento della funzionalità β cellulare.

Gli effetti extrapancreatici del GLP-1 si verificano a carico di:

  • sistema nervoso: mediante riduzione dell’appetito e aumento del senso di sazietà; inoltre, il GLP-1 sembra essere coinvolto anche in un aumento della proliferazione delle cellule neuronali;
  • fegato: attraverso un’aumentata captazione del glucosio (glicogenosintesi) e una sua ridotta produzione;
  • stomaco e intestino: con un rallentamento dello svuotamento gastrico e una riduzione della motilità intestinale;
  • massa grassa e massa magra: aumento della lipogenesi

3.2 Glucose-dependent insulinotropic polypeptide (GIP)

Glucose-dependent insulinotropic polypeptide, inizialmente conosciuto come Gastric inhibitory polypeptide (GIP), è un ormone di 42 aminoacidi prodotto dalle cellule K enteroendocrine e rilasciato nella circolazione in risposta alla stimolazione data dai nutrienti, in particolare glucosio e grassi (Baggio & Drucker, 2007). Più specificamente, è il tasso di assorbimento dei nutrienti, piuttosto che la mera presenza di sostanze nutritive nell’intestino, a stimolare il rilascio di GIP. La secrezione di GIP è ridotta nei soggetti che presentano malassorbimento intestinale o in seguito a somministrazione di farmaci che riducono l’assorbimento dei nutrienti (Besterman et al., 1979). Originariamente questo peptide fu isolato dall’intestino suino, sulla base della sua capacità di inibire la secrezione gastrica. Successivamente si è scoperto che la somministrazione di GIP in volontari sani stimolava la secrezione di insulina, agendo sulle isole pancreatiche per indurre tale secrezione.  Anche GIP si classifica, quindi, come incretina (Baggio & Drucker, 2007). Sembrano esserci delle differenze specie-specifiche nella regolazione nutrizionale che induce il rilascio di GIP, in quanto il grasso risulta essere il più potente stimolatore della sua secrezione nell’uomo mentre i carboidrati lo sono nel roditore e nel maiale. Infatti, il consumo cronico di grassi induce ipersecrezione di GIP da parte delle cellule K, e la secrezione di insulina come conseguenze degli aumentati livelli di GIP è risultata aumentata nei topi obesi alimentati con una dieta ad elevato contenuto di grassi rispetto a topi magri nutriti con una dieta a livelli di grassi normali (Harada et al., 2008). Oltre alla sua attività insulinotropica, GIP esercita una serie di azioni aggiuntive, tra cui la promozione della crescita e sopravvivenza delle cellule β pancreatiche e la stimolazione della lipogenesi. Cervello, ossa, cuore e tratto gastrointestinale sono ulteriori bersagli del GIP. Per quanto riguarda il tempo di emivita del GIP biologicamente attivo, esso è inferiore ai 2 minuti nei roditori (Kieffer et al., 1995), e approssimativamente di 7 e 5 minuti in soggetti sani e pazienti affetti da diabete di tipo 2, rispettivamente (Deacon et al., 2000). Studi condotti sia su roditori sia su adulti sani e diabetici hanno dimostrato che DPP-4 è l’enzima principalmente responsabile dell’inattivazione di GIP (Deacon et al., 2000; Kieffer et al., 1995). GIP possiede un residuo di Alanina in posizione 2, risultando un bersaglio per l’inattivazione mediata dall’enzima DPP-4. Questo enzima infatti svolge un ruolo nella degradazione del peptide GIP(1-42) alla forma inattiva GIP(3-42) (Figura 8) (Baggio & Drucker, 2007).

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Figura 8. Azione enzimatica di DPP-4 sulle due incretine biologicamente attive, GLP-1 e GIP, per formare i rispettivi metaboliti inattivi (Baggio & Drucker, 2007).

Sebbene dosi farmacologiche di GIP(3-42) possano funzionare come deboli antagonisti del recettore GIP in vitro e nei roditori, livelli fisiologici di GIP(3-42), in vivo, non antagonizzano gli effetti insulinotropi del GIP in forma attiva. È stato effettuato un confronto molto interessante tra gli ormoni incretinici dopo infusione endovenosa, rilevando nell’uomo che i livelli dei peptidi intatti e bioattivi erano del 40% per il GIP contro il 20% per il GLP-1. Questo porterebbe ad ipotizzare che GIP sia meno suscettibile a degradazione enzimatica da parte di DPP-4, riflettendosi anche nell’emivita plasmatica leggermente più elevata per GIP rispetto a GLP-1 (Deacon et al., 2000; Kieffer et al., 1995) (Baggio & Drucker, 2007).

Il recettore del GIP è espresso a livello di pancreas, stomaco, intestino tenue, tessuto adiposo, corteccia surrenale, ipofisi, cuore, testicoli, cellule endoteliali, ossa, trachea, milza, timo, polmone, rene, tiroide e diverse regioni del sistema nervoso centrale (Figura 9) (Baggio & Drucker, 2007).

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Figura 9. Azioni del GIP nei diversi tessuti.

Come il recettore del GLP-1, anche il recettore del GIP appartiene alla famiglia di recettori accoppiati a proteine G (Usdin et al., 1993). Il legame del GIP al suo recettore determina un aumento dei livelli di cAMP e Ca2+ intracellulare, nonché l’attivazione di PI-3K, PKA, PKB, MAPK e PLA2 (Baggio & Drucker, 2007). 

Le azioni del GIP sulle cellule β pancreatiche sono analoghe a quelle del GLP-1; tuttavia, gli effetti del GIP sui tessuti extrapancreatici sono peculiari. Il principale effetto fisiologico del GIP è quello di un ormone incretinico. Esso viene rilasciato dalle cellule K intestinali in seguito all’ingestione di nutrienti, si lega al suo recettore specifico a livello delle cellule pancreatiche migliorando la secrezione di insulina glucosio-dipendente (Baggio & Drucker, 2007). L’importanza fisiologica del GIP come incretina è stata dimostrata nei roditori effettuando un esperimento in cui è stato rimosso il recettore specifico per questo peptide, venendo meno quindi l’azione fisiologica dello stesso GIP. La conseguenza di questa delezione è stata l’associazione ad una ridotta tolleranza al glucosio orale e una difettosa secrezione di insulina glucosio-dipendente (Nyberg et al., 2005a). A livello del sistema nervoso centrale, il recettore del GIP è rilevabile in diverse regioni come l’ippocampo, la corteccia cerebrale e il bulbo olfattivo. Pertanto, l’azione del GIP a livello del sistema nervoso centrale può svolgere un ruolo nella proliferazione delle cellule progenitrici neurali e modificazioni del comportamento (Nyberg et al., 2005b). Per quanto concerne il tessuto adiposo, GIP è coinvolto nel metabolismo lipidico e nello sviluppo dell’obesità (Baggio & Drucker, 2007). L’ingestione di grassi è un potente stimolatore della secrezione di GIP nell’uomo e, inoltre, i livelli plasmatici di questo peptide risultano aumentati in alcuni individui obesi (Creutzfeldt et al., 1978). Gli effetti anabolici del GIP sul tessuto adiposo sono dati dalla stimolazione della sintesi degli acidi grassi e loro riesterificazione, dal potenziamento della loro incorporazione in trigliceridi mediata dall’insulina, dall’up-regulation della sintesi della lipoprotein lipasi e dalla riduzione della lipolisi stimolata dal glucagone (Baggio & Drucker, 2007). Per quanto riguarda gli altri tessuti, si è visto che GIP inibisce la secrezione di acido gastrico a concentrazioni sovrafisiologiche; nel fegato, GIP attenua la produzione di glucosio glucagone-stimolata probabilmente attraverso meccanismi indiretti, in quanto il suo recettore non è stato individuato nelle cellule epatiche (Baggio & Drucker, 2007). 

3.3 Analoghi del GLP-1

Diversi studi hanno dimostrato che l’entità della secrezione di insulina stimolata dai nutrienti risulta ridotta nei pazienti affetti da diabete di tipo 2, suggerendo la necessità di affrontare delle indagini per capire se la secrezione o l’azione delle incretine sia diminuita nei soggetti diabetici (Formoso G & Consoli A, 2016). I livelli plasmatici di GIP appaiono da normali ad aumentati nei soggetti affetti da diabete, mentre i livelli plasmatici di GLP-1 dopo l’ingestione di un pasto risultano, seppur in maniera modesta, significativamente diminuiti nei soggetti che manifestano un’alterata tolleranza al glucosio o diabete. Poiché GLP-1 e GIP vengono rapidamente degradati dalla dipeptil peptidasi 4, sono stati sviluppati degli agonisti per i medesimi recettori, analoghi delle due incretine, per il trattamento del diabete di tipo 2. Infatti, studi preliminari avevano dimostrato che il GLP-1 poteva essere protetto dall’azione della DPP-4, senza alcuna perdita della sua attività biologica, attraverso la sostituzione del residuo aminoacidico in posizione 2 (Alanina) con altri aminoacidi a catena più corta, quali glicina, serina, treonina o acido alfa-amino-isobutirrico (Deacon et al., 1998). Queste modifiche, però, estendevano l’emivita della molecola di soli pochi minuti, tempo ancora insufficiente per adoperare in maniera efficace il GLP-1 attraverso somministrazione sottocutanea. 

3.3.1 Exenatide

Nel 1992 fu scoperta casualmente una molecola avente il 53% di omologia con il GLP-1 endogeno, resistente all’azione della DPP-4 grazie alla presenza di un residuo di Glicina al posto dell’Alanina nella porzione N-terminale della molecola. La caratteristica di questa molecola, denominata exendin-4, oggi nota come Exenatide, era l’emivita significativamente più lunga rispetto a quella del GLP-1 (Eng et al., 1992). Una singola iniezione sottocutanea di 10 μg di Exenatide esercita nell’uomo un effetto biologico della durata compresa tra 5 e 7 ore. Nei soggetti sani, questa molecola presenta effetti insulinotropici, riducendo sia i valori della glicemia a digiuno sia di quella postprandiale. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato che la molecola esercita un effetto citoprotettivo sulle cellule β pancreatiche (Deacon, 2004). Exenatide presenta le stesse attività glucoregolatorie del GLP-1: aumento della secrezione insulinica glucosio-dipendente, soppressione della secrezione glucosio-dipendente di glucagone, rallentamento dello svuotamento gastrico e riduzione dell’assunzione di cibo. Inoltre, essa ha dimostrato di promuovere la proliferazione delle cellule β pancreatiche e la loro neogenesi da cellule precursori sia in studi in vitro sia in vivo (Nielsen et al., 2004).

3.3.2 Liraglutide

Un analogo di sintesi del GLP-1 è la Liraglutide, oggetto di questa Tesi. Essa presenta due modifiche strutturali: la Lisina in posizione 26 risulta acilata da un residuo di Acido palmitico, mentre in posizione 34 è sostituita da un’Arginina. Queste modifiche conferiscono alla molecola un aumento del tempo di emivita plasmatica e un più difficile accesso all’enzima DPP-4 a livello della porzione N-terminale, dando in questo modo la possibilità alla Liraglutide di legarsi all’albumina. Questo rende la Liraglutide un analogo stabile del GLP-1 con un’emivita plasmatica di circa 12 ore, il che rende possibile la monosomministrazione giornaliera (Degn et al., 2004). Per quanto riguarda la regolazione della glicemia, essa presenta meccanismi d’azione sovrapponibili a quelli del GLP-1: stimolazione della secrezione insulinica, rallentamento dello svuotamento gastrico, soppressione della secrezione di glucagone e miglioramento della massa e funzione β cellulare (Holst, 2006). 

3.3.3 Semaglutide 

Un altro analogo del GLP-1, con il 94% di omologia di sequenza rispetto al GLP-1 endogeno, è la Semaglutide. Questo principio attivo è utilizzato per il trattamento del diabete di tipo 2 non adeguatamente controllato in aggiunta a dieta ed esercizio fisico, ed è disponibile nel nostro Paese in medicinali per uso parenterale e in compresse per uso orale, aventi nome commerciale Ozempic® e Rybelsus®. Può essere utilizzato come monoterapia, quando l’uso di metformina è considerato inappropriato a causa di controindicazioni o intolleranza; può anche essere utilizzato in associazione ad altri medicinali per il trattamento del diabete. Rispetto al GLP-1 nativo, la Semaglutide presenta un’emivita prolungata di circa 1 settimana, il che rende questo principio attivo idoneo alla somministrazione per via sottocutanea una volta alla settimana. Il meccanismo principale di protrazione è il legame all’albumina, che determina una riduzione della clearance renale e la protezione dalla degradazione metabolica (Ozempic®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). Inoltre, la Semaglutide è stabilizzata contro la degradazione dovuta all’enzima DPP-4 (Ozempic®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). Come gli altri analoghi del GLP-1, anche questo principio attivo agisce sulla secrezione di insulina e glucagone, controlla l’appetito e il senso di sazietà e influisce, quindi, sulla perdita di peso.

3.3.4 Dulaglutide

L’ultimo analogo del GLP-1 che citiamo è la Dulaglutide, disponibile in Italia con il nome commerciale Trulicity®. Questa molecola viene utilizzata per abbassare il glucosio nel sangue in adulti e bambini di età superiore a 10 anni con diabete mellito di tipo 2. La somministrazione avviene attraverso una penna preriempita per via parenterale, una volta a settimana. Il tempo di emivita stimato è di circa 5 giorni (Trulicity®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). Il meccanismo d’azione e gli effetti farmacodinamici sono sovrapponibili a quelli degli analoghi precedentemente menzionati.

3.4 Inibitori dell’enzima DPP-4

Un altro possibile approccio terapeutico sfrutta il meccanismo d’azione degli inibitori dell’enzima DPP-4, glicoproteina presente sia in circolo sia sulla membrana cellulare (Formoso G & Consoli A, 2016). L’idea nacque nel 1995 dall’osservazione della rapida inattivazione del GLP-1 da parte di DPP-4 (Formoso G & Consoli A, 2016). Tra le molecole riconosciute come substrati di questo enzima spiccano GLP-1 e GIP, che vengono rapidamente inattivati attraverso il clivaggio del residuo aminoacidico seguente alla penultima Lisina della catena peptidica (Conarello et al., 2003). Da allora, diversi studi hanno dimostrato che il trattamento con inibitori dell’enzima DPP-4 apporta numerosi benefici, in termini di aumento della tolleranza al glucosio e funzione β cellulare migliorata. Questi effetti sono una logica conseguenza dell’aumento dei livelli di GLP-1 circolante (Reimer et al., 2002). Appartengono a questa classe i seguenti principi attivi, somministrati per os: Sitagliptin, Vildagliptin, Saxagliptin, Linagliptin e altri. Ad oggi non ci sono dati sufficienti a suggerire che i farmaci inibitori della DPP-4 siano in grado di indurre un calo ponderale, cosa che invece si verifica con gli analoghi del GLP-1. Infatti, nonostante l’evidenza che queste molecole prolunghino l’azione del GLP-1, questa potrebbe non essere sufficiente a spiegarne l’efficacia. Essendo la DPP-4 un enzima ubiquitario, in grado di inattivare non solo GLP-1 e GIP ma anche altre sostanze, è possibile che l’effetto positivo dei farmaci inibitori di questo enzima non sia unicamente attribuibile ad una maggiore emivita di queste due incretine, ma sia in realtà mediato anche dall’inibizione di altri peptidi (Ahrén, 2005). Tuttavia, è opportuno sottolineare che il trattamento farmacologico con queste molecole non è seguito dall’aumento ponderale che si verifica nella stragrande maggioranza dei pazienti trattati con altri farmaci ipoglicemizzanti come le sulfoniluree, i tiazolindinedioni e l’insulina. In virtù anche della loro azione citoprotettiva nei confronti delle cellule β del pancreas, questi farmaci potrebbero essere utilizzati in futuro non solo negli individui con diabete di tipo 2 conclamato, come già accade, ma anche nei soggetti a rischio di sviluppare questa patologia (Formoso G & Consoli A, 2016). 

4. LIRAGLUTIDE 

Come il GLP-1 endogeno, la Liraglutide agisce riducendo il peso corporeo in abbinamento ad una dieta ipocalorica e, al contempo, stimolando la secrezione di insulina con riduzione del rilascio di glucagone glucosio-dipendente. Come risultato del suo duplice effetto sul calo ponderale e sulla regolazione del glucosio plasmatico, questo principio attivo viene utilizzato sia nel trattamento del diabete sia dell’obesità. 

4.1 Effetti farmacodinamici

Nell’uomo la Liraglutide svolge la sua azione prevalentemente attraverso la perdita di massa grassa, con una diminuzione maggiore del grasso viscerale rispetto al grasso sottocutaneo. Questa molecola regola l’appetito attraverso un incremento del senso di sazietà e una contemporanea riduzione del desiderio di cibo. Ne consegue che il paziente in terapia con questo farmaco, sentendosi sazio più a lungo, riduca l’apporto calorico. Questa molecola stimola la secrezione di insulina glucosio-dipendente e riduce la secrezione di glucagone, con conseguente diminuzione dei livelli di glucosio a digiuno e post-prandiale. L’effetto ipoglicemizzante risulta più evidente nei soggetti con alterata glicemia a digiuno e diabete rispetto ai pazienti normoglicemici. Come affermato nel capitolo precedente, studi clinici suggeriscono che la Liraglutide migliori e sostenga la funzionalità delle cellule β pancreatiche, con miglioramento dell’indice HOMA-B, e il rapporto tra proinsulina e insulina (van Can et al., 2014).

A conferma di quanto affermato, nel 2014 fu condotto uno studio sponsorizzato dalla ditta produttrice NovoNordisk, fine a valutare gli effetti di Liraglutide su svuotamento gastrico, parametri glicemici, appetito e metabolismo energetico in soggetti obesi non-diabetici, alle dosi di 1.8 mg e 3.0 mg. Per condurre questo studio, sono stati reclutati 49 partecipanti, uomini e donne, di età compresa tra 18 e 75 anni, con BMI compreso tra 30- e 40 kg/m2, peso stabile negli ultimi 3 mesi (le variazioni del peso corporeo dovevano essere inferiori ai 5 kg), con glicemia a digiuno inferiore a 7 mmol/l. I principali criteri di esclusione furono: diagnosi di diabete mellito di tipo 1 o 2, utilizzo di una terapia farmacologica dimagrante approvata nei 3 mesi precedenti lo studio, precedente intervento chirurgico per il trattamento dell’obesità, patologie cardiovascolari e alla tiroide.  I partecipanti sono stati randomizzati in tre gruppi di trattamento: il primo gruppo trattato con Liraglutide alla dose di 1.8 mg; il secondo gruppo trattato con Liraglutide 3.0 mg; il terzo gruppo con placebo in un trial in doppio-cieco e crossover non completo. I partecipanti sono stati randomizzati in modo tale da ricevere due dei tre possibili trattamenti (Figura 10) (van Can et al., 2014).

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Figura 10: Rappresentazione schematica del trial clinico (2014).

Dopo essere stati sottoposti a randomizzazione, ai partecipanti è stata valutata la composizione corporea mediante DEXA. Sono stati previsti due periodi di trattamento, ciascuno dei quali costituito da 5 settimane a casa più un successivo soggiorno di 2 giorni in clinica. Lo scopo principale di questo studio non era tanto quello di valutare la perdita di peso in seguito alla somministrazione di Liraglutide, ma piuttosto stabilire gli effetti acuti di questo farmaco. Pertanto, ai partecipanti fu richiesto di non modificare le proprie abitudini alimentari, l’attività fisica o la propria routine quotidiana durante lo studio. Inoltre, tra i due periodi di prova fu introdotto un wash-out di 6-8 settimane al fine di evitare effetti cumulativi del primo trattamento sul secondo (van Can et al., 2014).

Durante i 2 giorni di degenza clinica alla fine di ogni periodo di trattamento, sono stati valutati il dispendio energetico nelle 24 ore e i tassi di ossidazione del substrato in una camera respiratoria a circuito aperto. Lo scambio di gas è stato calcolato attraverso il consumo di ossigeno e carbonio con produzione di anidride carbonica nella camera respiratoria (van Can et al., 2014).

Liraglutide 1.8 mg, 3.0 mg e placebo sono stati somministrati una volta al giorno con iniezioni sottocutanee serali, utilizzando una penna per iniezione preriempita (van Can et al., 2014). Il dosaggio iniziale era di 0.6 mg die, aumentando progressivamente con incrementi settimanali di 0.6 mg per mitigare gli effetti collaterali gastrointestinali. Le concentrazioni di Liraglutide in circolo si stabilizzano dopo 3-5 giorni di somministrazione. Per mantenere la cecità dello studio, la dose di placebo è stata suddivisa in due gruppi con volumi di iniezioni diversi, corrispondenti alle due dosi di Liraglutide (van Can et al., 2014). 

Dopo 5 settimane di trattamento, è stato effettuato un test del pasto (colazione) per valutare lo svuotamento gastrico, i parametri glicemici postprandiali e l’appetito. Dopo aver misurato la concentrazione di glucosio ematica a digiuno, è stata servita una colazione standardizzata. Questa consisteva in: 2 cracker Wasa integrali, con 10 grammi di margarina e 40 grammi di formaggio Gouda intero, una bevanda energetica Nutrition Resource 2.0 Nestlé® e 200 ml di acqua. Il volume della bevanda è stato aggiustato su base individuale, in modo che l’apporto energetico totale del pasto corrispondesse al 40% del dispendio energetico del partecipante durante il sonno, calcolato durante la prima visita in camera respiratoria. I partecipanti hanno iniziato il pasto consumando per prima la bevanda, che conteneva 1,5 grammi di paracetamolo al fine di valutare lo svuotamento gastrico. Successivamente sono stati consumati i crackers con i loro condimenti, il tutto entro 15 minuti. Sono stati prelevati campioni di sangue per la valutazione del glucosio plasmatico, peptide C, glucagone, concentrazione di paracetamolo e insulina sierica. Inoltre, sono state effettuate valutazioni per quanto riguardava l’appetito, il senso di sazietà e pienezza, la sete, lo stato di benessere ed eventuale nausea. Dopo circa 5 ore dalla colazione, è stato fornito un pranzo ad libitum per la valutazione dell’apporto energetico. Il pranzo consisteva in una lasagna servita con 200 ml di acqua (van Can et al., 2014). Ai partecipanti fu chiesto di mangiare fino a quando fossero piacevolmente sazi, e il pasto doveva essere completato entro 30 minuti. Si è utilizzato il paracetamolo per valutare in maniera indiretta lo svuotamento gastrico (van Can et al., 2014). Il paracetamolo somministrato per via orale è scarsamente assorbito dallo stomaco ma assorbito rapidamente dall’intestino tenue. Pertanto, lo svuotamento gastrico è la fase limitante per la comparsa di paracetamolo nel sangue (van Can et al., 2014). La concentrazione massima di paracetamolo viene raggiunta dopo 30-60 minuti e il tempo di emivita è di circa 2 ore (van Can et al., 2014). Pertanto, l’AUC a 60 minuti è un indicatore della rapidità dello svuotamento gastrico e l’AUC a 300 minuti è indicatore della totalità dello svuotamento gastrico (van Can et al., 2014). Lo svuotamento gastrico (AUC da 0 a 300 min) è risultato equivalente per Liraglutide 1.8 e 3.0 mg, e per Liraglutide vs placebo. Tuttavia, sono state osservate riduzioni dello svuotamento gastrico in un’ora del 23% per Liraglutide 3.0 mg e del 13% per Liraglutide 1.8 mg rispetto al placebo (Figura 11) (van Can et al., 2014). 

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Figura 11: Effetti della liraglutide alle dosi di 1.8 mg, 3.0 mg e placebo sullo svuotamento gastrico (van Can et al., 2014).

Entrambe le dosi di Liraglutide hanno aumentato in modo simile il senso di sazietà e pienezza, con riduzione della fame e del consumo di cibo, riducendo l’introito energetico ad libitum di circa il 16%. Alla dose di 3.0 mg è stato registrato un miglioramento della glicemia postprandiale più consistente, rispetto alla dose minore (van Can et al., 2014).

4.2 Studi di efficacia: Studio SCALE

L’ efficacia della Liraglutide sulla perdita di peso tra adulti obesi o sovrappeso, affetti da diabete di tipo 2, è stata valutata nel trial clinico SCALE (Satiety and Clinical Adiposity-Liraglutide Evidence) randomizzato sul diabete (Davies et al., 2015). 

Questo trial di 56 settimane fu condotto su un gruppo randomizzato, in doppio-cieco, con controllo parallelo del placebo, in arco temporale compreso tra giugno 2011 e gennaio 2013, nelle seguenti Nazioni: Francia, Germania, Israele, Sud Africa, Spagna, Svezia, Turchia, Inghilterra, Scozia e Stati Uniti. Dopo la sospensione del trattamento, fu considerato anche un periodo di follow-up di 12 settimane di osservazione per valutare gli effetti (Davies et al., 2015). Quindi, la durata complessiva di questo trial è stata di 68 settimane. I pazienti erano in condizioni di sovrappeso o obesità (con BMI≥27.0), adulti (età ≥18 anni) con peso corporeo stabile (variazioni ponderali inferiori a 5 kg nei tre mesi precedenti l’inizio del trial), con diabete mellito di tipo 2 diagnosticato (livello di emoglobina glicata HbA1c compresa tra 7.0% e 10.0%), trattati con dieta ed esercizio fisico solamente, o in combinazione con 1-3 agenti ipoglicemizzanti orali (metformina, tiazolidinedioni, sulfoniluree) (Davies et al., 2015). I partecipanti già in terapia con sulfoniluree hanno ridotto la dose di farmaco orale del 50%, al fine di evitare o ridurre il rischio di crisi ipoglicemiche (Davies et al., 2015). L’etnia dei partecipanti è stata auto-segnalata e documentata dal gruppo clinico, in quanto la FDA si è raccomandata di riportare questo tipo di informazione in modo da poter esaminare in futuro le potenziali e differenti risposte al trattamento, qualora queste mostrassero una correlazione all’etnia di appartenenza (Davies et al., 2015).

I partecipanti sono stati assegnati casualmente (in cieco; settimana 0) dal gruppo 1 al 3: Liraglutide (3.0 mg); Liraglutide (1.8 mg) o placebo in proporzione 2:1:1 (Davies et al., 2015). 

Il farmaco in studio è stato somministrato una volta al giorno attraverso iniezione sottocutanea, usando una penna modificata per insulina (Flex-pen®; Novo Nordisk). La dose iniziale nel trial era pari a 0.6 mg di farmaco ed è stata aumentata con incrementi di 0.6 mg settimanali fino alla dose di trattamento. Questa tipologia di trattamento è durata due settimane per il trattamento con la dose di 1.8 mg, e 4 settimane per il trattamento con la dose di 3.0 mg (Davies et al., 2015). Ai partecipanti è stato esortato di seguire una dieta contenente circa il 30% di grassi, 20% di proteine e 50% di carboidrati, con un deficit di 500 kcal/giorno e un programma di esercizio fisico (almeno 150 minuti di camminata veloce a settimana). Ai partecipanti che hanno interrotto il trial, è stato chiesto di ritornare alla settimana 56 per il follow-up (Davies et al., 2015).

Alla 56° settimana sono stati testati 3 end points: il primo, relativo al cambiamento di peso corporeo; il secondo, relativo alla proporzione dei partecipanti che hanno perso il 5% o più del peso di partenza; il terzo, inerente alla proporzione dei partecipanti che hanno perso il 10% o più del peso di partenza (Davies et al., 2015).

Gli end points secondari di efficacia includevano i cambiamenti alla 56° settimana circa la circonferenza della vita, IMC, livelli di HbA1c, incremento prandiale di glucosio plasmatico ( come differenza tra i valori di glucosio prima del pasto e 90 minuti post-pasto, in media tra 3 pasti), livello plasmatico di glucosio a digiuno, livello di insulina, livello di peptide-C, livello di proinsulina e rapporto tra proinsulina ed insulina, indice di valutazione con modello omeostatico di insulino-resistenza (HOMA-IR), pressione sanguigna, livello di lipidi a digiuno (totali, lipoproteine ad alta densità [HDL], lipoproteine a bassa densità [LDL], e lipoproteine a bassissima densità [VLDL], acidi grassi liberi, trigliceridi), livelli dei biomarkers cardiovascolari ( proteina-C-reattiva ad alta sensibilità, adiponectina, fibrinogeno, attivatore dell’inibitore del plasminogeno-1, rapporto tra albumina e creatinina nelle urine e i risultati riportati dai pazienti circa l’impatto sulla qualità della vita e la soddisfazione del trattamento del diabete (Davies et al., 2015).

Da un peso corporeo medio di partenza di 105.7 Kg per il gruppo con Liraglutide 3.0 mg, 105.8 kg con Liraglutide 1.8 mg e 105.6 kg per il gruppo placebo, le perdite di peso medie osservate sono state del 6.0% (6.4 kg), 4.7% (5.0 kg) e 2.9% (2.2 kg) rispettivamente (Davies et al., 2015). La perdita di peso significativamente maggiore è stata rilevata con Liraglutide 3.0 mg e con la dose da 1.8 mg, rispetto al placebo per i 3 end points comprimari nell’analisi di imputazione multipla (Davies et al., 2015). Una proporzione significativamente più alta di partecipanti ha perso tra il 5 e il 10% del peso corporeo con Liraglutide nella dose di 3.0 mg e 1.8 mg rispetto al placebo. Riduzioni significative nella circonferenza della vita media e BMI sono state osservate con Liraglutide 3.0 mg e 1.8 mg rispetto al placebo (Davies et al., 2015). Liraglutide 3.0 mg è stata associata ad un miglioramento significativo del controllo glicemico, rispetto al placebo, in termini di cambiamento del livello di HbA1c, proporzione dei partecipanti che hanno raggiunto il target di HBA1c, incremento di glucosio prandiale, livello plasmatico di glucosio a digiuno, livello di glucagone a digiuno, livello di proinsulina, rapporto tra proinsulina e insulina, e indici di HOMA-IR (Davies et al., 2015). Un simile pattern è osservato con Liraglutide 1.8 mg, eccetto per gli indici HOMA-IR, che hanno mostrato nessun effetto significativo del trattamento (Davies et al., 2015). Inoltre, più partecipanti trattati con Liraglutide 3.0 mg e Liraglutide 1.8 mg, rispetto al placebo, hanno ridotto il loro uso netto di agenti ipoglicemizzanti orali dopo 56 settimane (Davies et al., 2015). La pressione sanguigna media sistolica, ma non diastolica, si è ridotta significativamente con Liraglutide rispetto al placebo, ma non con un effetto dose-dipendente (Davies et al., 2015). Liraglutide 3.0 mg, ma non la dose di 1.8 mg, ha significativamente migliorato i livelli di colesterolo totale, VLDL, HDL e trigliceridi, rispetto al placebo; non sono stati osservati effetti sul colesterolo LDL o sugli acidi grassi liberi (Davies et al., 2015). Sono migliorati i livelli di proteina-C-reattiva ad alta sensibilità con entrambi le dosi di Liraglutide, ma solo la dose di 3.0 mg ha significativamente migliorato il livello dell’attivatore dell’inibitore di plasminogeno-1 e il rapporto di albumina/creatinina nelle urine (Davies et al., 2015). Il livello di fibrinogeno è scarsamente migliorato con la dose di 3.0 mg, rispetto al placebo, mentre il rapporto tra albumina-creatinina era più basso del 20% con Liraglutide 3.0 mg rispetto al placebo dopo 56 settimane (Davies et al., 2015). L’obesità può pregiudicare la salute sia fisica sia mentale e allo stesso modo anche la qualità della vita. Liraglutide 3.0 mg ha significativamente migliorato il “punteggio totale” del questionario IWQoL-Lite (Quality of Life Consulting evaluates the impact of weight and obesity on quality of life) e un Questionario sulla Soddisfazione del Trattamento del Diabete in rapporto al placebo (Davies et al., 2015). 

Questo trial presenta diverse limitazioni. In primo luogo, questo studio non è stato condotto al fine di trarre conclusioni definitive sulla sicurezza. Infatti, si può solamente affermare che gli effetti avversi erano maggiori con l’utilizzo di Liraglutide rispetto al placebo, a causa di un tasso più elevato di effetti collaterali gastrointestinali. Questi ultimi comprendevano in particolare nausea, vomito, diarrea e costipazione, e sono stati gli eventi avversi più frequentemente riportati da tutti i gruppi trattati, con un’incidenza maggiore nel gruppo trattato con Liraglutide 3.0 mg rispetto al gruppo trattato con Liraglutide 1.8 mg. La nausea si è manifestata nelle prime 4-8 settimane di trattamento. Il tasso di eventi avversi gravi è stato dell’8,8% con Liraglutide 3.0 mg; 8,6% con Liraglutide 1.8 mg; 6,1% con placebo. Gli eventi si sono generalmente verificati come eventi singoli in un unico partecipante senza alcun clustering appartente. Un partecipante appartenente al gruppo trattato con Liraglutide 1.8 mg è morto dopo 44 giorni di sospensione del trattamento, durante il periodo di follow-up; la morte è stata attribuita ad embolia polmonare e ictus tromboembolico. Per quanto riguarda gli episodi ipoglicemici, questi erano più frequenti con Liraglutide rispetto al placebo. Tuttavia, i risultati hanno evidenziato che gli eventi ipoglicemici si sono verificati sia con Liraglutide 3.0 mg sia con Liraglutide 1.8, osservando quindi che non c’era alcuna dipendenza dalla dose. Pochi episodi di ipoglicemia severa (5 con Liraglutide 3.0 mg, 3 con Liraglutide 1.8) sono stati riportati in pazienti in trattamento concomitante con sulfoniluree. La qualità della vita correlata al peso è significativamente migliorata con Liraglutide 3.0 mg e meno con Liraglutide 1.8 mg. È possibile che tale miglioramento in termini di qualità della vita e soddisfazione del trattamento sia la risultante di una migliore aderenza alla terapia e ad un intervento sullo stile di vita, ma sono necessari ulteriori studi per confermare questa ipotesi. Un ulteriore limite di questo studio riguarda il mantenimento della perdita di peso dopo le 56 settimane. Infatti, sebbene la perdita di peso sia stata mantenuta per tutta la durata del trial, sono necessari ulteriori studi per stabilire se tali effetti vengono mantenuti con un trattamento a base di Liraglutide sul lungo termine (Davies et al., 2015).

4.3 Saxenda®

Il farmaco Saxenda®, il cui principio attivo è oggetto di questa tesi, è stato messo in commercio nel dicembre 2015, in seguito all’approvazione da parte della FDA (Fonte: AIFA, 2015), per la gestione del peso corporeo di pazienti adulti con un BMI iniziale ≥30 kg/m² (obesi), o compreso tra 27 kg/m² e 30 kg/m² (sovrappeso), in presenza di almeno una co-morbidità correlata al peso, come disglicemia (pre-diabete o diabete mellito di tipo 2), ipertensione, dislipidemia o apnea ostruttiva nel sonno, in maniera complementare ad una dieta ipocalorica e ad un’aumentata attività fisica (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023a). Saxenda® è un agonista del GLP-1 e non deve essere utilizzato contemporaneamente ad altri farmaci appartenenti alla medesima classe (Fonte: AIFA, 2015). Saxenda® e Victoza® contengono lo stesso principio attivo (Liraglutide) a diverse dosi (3 mg e 1,8 mg, rispettivamente). Saxenda® è attualmente approvato come farmaco per la gestione del peso corporeo in Australia, Canada, Unione Europea, Messico e Stati Uniti (Wilding et al., 2016). Tuttavia, Saxenda® non è indicato per il trattamento del diabete di tipo 2, in quanto non è stata stabilita la sicurezza e l’efficacia di Saxenda® per il trattamento del diabete (Fonte: AIFA, 2015).

4.3.1 Meccanismo d’azione

La Liraglutide è un agonista del recettore del GLP-1 che, oltre a stimolare il rilascio di insulina e inibire la secrezione di glucagone, rallenta lo svuotamento gastrico e aumenta la sazietà dopo i pasti. Questo principio attivo è un analogo acilato del GLP-1 con una sequenza omologa al 97% (Figura 12) (Saxenda®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023).

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Figura 12: Modificazioni del GLP-1 umano per ottenere l’analogo Liraglutide.

L’esatto meccanismo d’azione del farmaco Saxenda® sulla perdita di peso non è del tutto noto, ma si ritiene che il medicinale agisca sulle zone cerebrali che regolano l’appetito, legandosi ai recettori del GLP-1 presenti nelle cellule cerebrali. Le conseguenze sono un incremento del senso di sazietà e una diminuzione dei segnali oressigeni (Fonte: EMA, 2023). Negli studi condotti su animali, la somministrazione periferica di Liraglutide ha indotto l’assorbimento in regioni cerebrali specifiche deputate alla regolazione dell’appetito, dove Liraglutide, mediante l’attivazione del recettore del GLP-1, ha aumentato i principali segnali di sazietà e ha diminuito i principali segnali di fame, inducendo pertanto una riduzione del peso corporeo (Saxenda®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023).

4.3.2 Dose, posologia e modalità di somministrazione

Saxenda ® (Figura 13) è fornito come soluzione iniettabile limpida e incolore o quasi incolore, in una penna preriempita (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). Ogni penna contiene 3 ml di soluzione ed è in grado di erogare dosi da 0,6 mg, 1,2 mg, 1,8 mg, 2,4 mg e 3,0 mg (Saxenda®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). È disponibile in confezioni contenenti 1, 3 o 5 penne preriempite (Saxenda®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). Gli aghi non sono inclusi (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). 1 ml di soluzione iniettabile contiene 6 mg di Liraglutide (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). Una penna preriempita contiene 18 mg di Liraglutide (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b)

Gli altri eccipienti sono: sodio fosfato dibasico diidrato, propilenglicole, fenolo, acido cloridrico e sodio idrossido (per aggiustamento del pH) e acqua per preparazioni iniettabili (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

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Figura 13: Saxenda®: penna e aghi (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Il trattamento inizierà con una dose bassa che verrà gradualmente aumentata nel corso delle prime cinque settimane di trattamento, secondo le indicazioni del medico. Quando il paziente inizia per la prima volta a usare Saxenda®, la dose iniziale è 0,6 mg una volta al giorno, per almeno una settimana (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). Il medico indicherà di aumentare gradualmente la dose di 0,6 mg di solito ogni settimana fino a raggiungere la dose raccomandata di 3,0 mg una volta al giorno (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). Solitamente la posologia prescritta per il paziente adulto è quella riportata in Tabella 3.

Tabella 3: posologia consigliata nelle prime 5 settimane di trattamento (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

SettimanaDose iniettata
Settimana 10,6 mg una volta al giorno
Settimana 21,2 mg una volta al giorno
Settimana 31,8 mg una volta al giorno
Settimana 42,4 mg una volta al giorno
Settimana 53,0 mg una volta al giorno

Una volta raggiunta la dose raccomandata di 3,0 mg nella settimana 5 di trattamento, il paziente, salvo diverse indicazioni del medico curante, è invitato a usare questa dose fino al termine del periodo di trattamento, non aumentandola ulteriormente. Il medico valuterà il trattamento ad intervalli regolari (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). 

Per gli adolescenti dai 12 ai 18 anni, la dose deve essere aumentata in modo simile a quanto riportato nella tabella sopra per gli adulti (Saxenda®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). La dose deve essere aumentata fino al raggiungimento di 3,0 mg (dose di mantenimento) o della dose massima tollerata (Saxenda®, Riassunto Delle Caratteristiche Del Prodotto, 2023). Non sono raccomandate dosi giornaliere superiori a 3,0 mg (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Saxenda® può essere somministrato in qualsiasi ora del giorno, con o senza cibo e bevande. Tuttavia, è preferibile che la somministrazione venga effettuata approssimativamente alla stessa ora ogni giorno; pertanto, il paziente è invitato a scegliere un orario che gli sia più comodo, al fine di rispettare la posologia in modo costante.

Saxenda® si somministra per iniezione sottocutanea. Se si dimentica una dose e ci si accorge della dimenticanza entro 12 ore da quando solitamente si effettua l’iniezione, il paziente assuma la dose non appena se ne ricordi. Tuttavia, se trascorrono più di 12 ore dal momento in cui avrebbe dovuto usare Saxenda®, il paziente salti la dose dimenticata e inietti quella successiva il giorno dopo all’orario abituale (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Non si deve usare una dose doppia né aumentare la dose il giorno successivo per compensare la dose dimenticata. Le migliori zone per praticare l’iniezione sono la vita (addome), la parte anteriore delle cosce o la parte superiore delle braccia. Il paziente deve presentare estrema attenzione a non iniettare il medicinale in una vena o in un muscolo (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

4.3.3 Persone diabetiche

È necessario informare il medico se si è affetti da diabete; il medico potrebbe correggere la dose dei medicinali per il diabete, al fine di evitare una diminuzione eccessiva di glucosio nel sangue (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). Saxenda® non deve essere miscelato con altri medicinali iniettabili (ad esempio insuline) e non deve essere utilizzato insieme ad altri farmaci contenenti agonisti del recettore del GLP-1 (come Exenatide o Lixisenatide) (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

4.3.4 Effetti indesiderati

Se il paziente usa più Saxenda® di quanto deve, è tenuto ad informare tempestivamente il medico o recarsi all’ospedale. Possono verificarsi i seguenti sintomi: nausea, vomito, ipoglicemia (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Effetti indesiderati molto comuni (interessano più di 1 persona su 10): nausea o sensazione di malessere, vomito, diarrea, stitichezza, cefalea; scompaiono generalmente dopo qualche giorno o settimana di utilizzo del farmaco (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Effetti indesiderati comuni (interessano fino a 1 persona su 10): problemi a stomaco e intestino, quali indigestione (dispepsia), gastrite, mal di stomaco, gonfiore addominale, flatulenza, eruttazione e secchezza delle fauci; sensazione di debolezza e stanchezza; disgeusia; capogiri; insonnia (generalmente si manifesta nei primi 3 mesi di trattamento); calcoli biliari; reazioni al sito di iniezione (lividi, dolore, irritazione, prurito ed eruzione cutanea); aumento degli enzimi pancreatici, come lipasi e amilasi; bassi livelli di zucchero (ipoglicemia). Questi ultimi possono insorgere all’improvviso e includono: sudorazione fredda, pelle fredda e pallida, cefalea, battito cardiaco accelerato, nausea, sensazione di fame eccessiva, alterazioni della vista, sonnolenza, sensazione di debolezza, ansia, nervosismo, confusione, difficoltà di concentrazione e tremori (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Effetti indesiderati non comuni (interessano fino a 1 persona su 100): disidratazione (è più probabile che si verifichi all’inizio del trattamento e potrebbe essere causata da nausea, vomito e diarrea); ritardo nello svuotamento gastrico; infiammazione della cistifellea; battito cardiaco accelerato; sensazione di malessere generalizzato; eruzioni cutanee. Non comunemente sono stati segnalati casi di infiammazione del pancreas (pancreatite); si tratta di una condizione grave, potenzialmente pericolosa per la vita. Se il paziente dovesse notare sintomi come dolori forti e persistenti all’addome, che possono raggiungere la schiena, così come nausea e vomito, è pregato di interrompere Saxenda® e contattare immediatamente il medico (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Effetti indesiderati rari (interessano fino a 1 persona su 1000): funzionalità renale ridotta, insufficienza renale acuta. I segni possono includere riduzione del volume di urina, gusto metallico in bocca e facile formazione di lividi (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

Raramente sono state segnalate reazioni allergiche gravi (anafilassi) in pazienti che usando Saxenda®. Il paziente è tenuto a rivolgersi immediatamente al medico nel momento in cui dovesse manifestare sintomi quali problemi respiratori, gonfiore del viso e della gola e battito cardiaco accelerato (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

4.3.5 Conservazione

Tenere il medicinale fuori dalla vista e dalla portata dei bambini (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b). 

Prima del primo utilizzo: conservare in frigorifero ad una temperatura compresa tra 2°C e 8°C. Non congelare.

Dopo aver iniziato ad utilizzare la penna: si può conservare la penna per 1 mese sotto i 30°C, o in frigorifero tra 2°C e 8°C. Non congelare.

Quando il paziente non usa la penna, deve avere l’accortezza di conservarla con il cappuccio per proteggerla dalla luce. Il medicinale non deve essere utilizzato se la soluzione non risulti limpida, incolore o quasi incolore (Saxenda®, Foglio Illustrativo, 2023b).

4.3.6 Prescrizione medica

Con la Determina del 3 dicembre 2020, la Agenzia Italiana del Farmaco è proceduta alla riclassificazione del medicinale per uso umano Saxenda®, ai sensi dell’articolo 8, comma 10, della legge 24 dicembre 1993, n. 537. Con ciò la Liraglutide 3.0 mg è stata riclassificata come medicinale soggetto a ricetta medica (RR), di libera prescrizione e quindi non più riservata solo ad alcuni specialisti medici. La ricetta ha validità 6 mesi, esclusa la data di prescrizione, e consente la dispensazione del farmaco per non più di dieci volte entro tale periodo. La classe di rimborsabilità del farmaco è “C”. Il costo del medicinale è di €210,00 per la confezione da 3 penne, e di €288,46 per la confezione da 5 penne. 

5. MATERIALI E METODI

5.1 Casi clinici

Lo scopo dello studio oggetto di questa tesi, condotto tra gennaio 2023 e agosto 2023, è stato quello di valutare gli effetti del farmaco a base di Liraglutide, Saxenda®, su una popolazione mista di maschi e femmine, per un periodo di 16 settimane. Per condurre il presente studio è stata presa in esame una popolazione di pazienti in condizione di sovrappeso (BMI≥25) o obesità (BMI ≥ 30), seguiti dal Dottor Georgios Anastassopoulos, specialista in epatologia e medicina interna, la cui attività viene svolta in diversi ambulatori nelle provincie di Rovigo e Venezia. 

Nello specifico, la popolazione è stata suddivisa in due gruppi: il primo costituito da 15 femmine e il secondo da 15 maschi, di età compresa tra i 18 e i 60 anni, con diverse comorbilità. Ciascun paziente è stato sottoposto ad un’attenta anamnesi, volta a valutare al tempo 0, cioè prima dell’inizio dello studio, i seguenti parametri: peso, altezza, BMI, glicemia a digiuno, profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, LDL e trigliceridi), eventuale presenza di comorbilità, integrazione o farmaci consigliati, raccomandazioni e terapia farmacologica con Saxenda®.

Al termine delle 16 settimane, i pazienti si sono presentati dal Dottor Georgios Anastassopoulos per il follow-up, sede nella quale sono stati valutati anche gli eventuali effetti collaterali del farmaco e le difficoltà riscontrate dal singolo paziente nell’aderenza alla terapia.

5.2 Analisi statistica dei dati

Per portare a termine l’analisi sono stati utilizzati Excel e GraphPad Prism 8.0. Per confrontare un singolo parametro tra due gruppi d’esame è stato utilizzato lo Student’s test e la significatività statistica viene evidenziata come * p<0.05. Ogni grafico rappresenta la media ± SEM.

6. RISULTATI

6.1 Dati dei casi clinici al tempo 0 (T=0)

I dati raccolti al momento dell’anamnesi al tempo 0, cioè prima dell’inizio della terapia farmacologica con Saxenda®, sono stati suddivisi rispettivamente per femmine e maschi, come si evince dalle tabelle alla fine di questo paragrafo (Tabelle 4, 5, 6 e 7).

I partecipanti allo studio sono tutti individui sovrappeso o obesi, con una o più comorbilità. Tra queste prevalgono la NAFLD (Nonalcoholic Fatty Liver Disease), ovvero la steatosi epatica non alcolica, la NASH (Non-alcoholic Steatohepatitis), cioè la steatoepatite non alcolica e la sindrome metabolica (caratterizzata dalla presenza contemporanea di più condizioni, tra cui: ipertensione arteriosa, alterata glicemia a digiuno, obesità addominale, dislipidemia). 

Popolazione femminile – In 7 casi su 15 è stato consigliato di utilizzare integratori o farmaci per migliorare i parametri rilevati dalle analisi del sangue. Più specificamente, in 3 casi è stato prescritto di utilizzare il farmaco Dibase 10000 UI (principio attivo: Colecalciferolo) con la posologia di 30 gocce a settimana, allo scopo di rimediare al deficit di vitamina D; in 2 casi è stato prescritto il farmaco Folina 5 mg (principio attivo: Acido folico) con la posologia di 1 compressa al mattino; in  2 casi è stato consigliato di integrare con Armolipid plus, a base di riso rosso fermentato, con la posologia di 1 compressa la sera; in 2 casi è stato raccomandato di utilizzare il farmaco a base di Atorvastatina, per il trattamento dell’ipercolesterolemia, 1 compressa la sera dopo cena; in 1 caso è stato prescritto Olmesartan 10 mg per l’ipertensione, 1 compressa al mattino con la raccomandazione di monitorare quotidianamente la pressione a domicilio; in 2 casi è stato consigliato di integrare con Sillbrain, 1 compressa dopo pranzo; in 1 caso è stato consigliato LegalonE, 1 compressa per due volte al giorno dopo i pasti principali; in 2 casi è stato prescritto il farmaco Olevia 1000 mg (principio attivo: omega 3 esteri etilici), con posologia personalizzata; in 1 caso Simvastatina 20 mg, 1 compressa la sera dopo cena; infine, in 1 caso è stato prescritto il farmaco a base di Acido Ursodesossicolico 300 mg, 1 compressa per due volte al giorno dopo i pasti. In tutti i casi è stato fortemente raccomandato un calo ponderale con una dieta ipolipidica e ipoglucidica e aumentata attività fisica.

Popolazione maschile – In 13 casi su 15 è stato consigliato di utilizzare integratori o farmaci per migliorare i parametri rilevati dalle analisi del sangue. Più specificamente, in 3 casi è stato prescritto il farmaco Dibase 10000 UI (principio attivo: Colecalciferolo), 30 gocce a settimana; in 7 casi è stato prescritto il farmaco Olevia 1000 mg (principio attivo: Omega 3 esteri etilici), prima dei pasti con posologia personalizzata; in 4 casi è stato raccomandato di integrare con LegalonE, 1 compressa per due volte al giorno dopo i pasti principali; in 3 casi è stato prescritto l’utilizzo di Acido Ursodesossicolico 300 mg, 1 compressa per tre volte al giorno dopo i pasti; in due casi è stato prescritto l’utilizzo di Metformina, con dosaggio e posologia personalizzati; in 3 casi è stato raccomandato di integrare con Sillbrain, 1 compressa dopo pranzo per 8 settimane; in 1 caso è stato prescritto il farmaco Simvastatina 20 mg, 1 compressa la sera dopo cena; in 1 caso il farmaco Rosuvastatina/Ezetimibe 5/10 mg, 1 compressa la sera dopo cena; in 1 caso il farmaco Inegy 10/40 mg (principi attivi: Eszetimibe e Simvastatina), 1 compressa la sera dopo cena; in 1 caso Perindopril 2 mg, 1 compressa al giorno; in 1 caso Bisoprololo 2,5 mg, mezza compressa al giorno; in 1 caso Valsartan 80 mg, 1 compressa al mattino; infine, in 1 caso è stato prescritto Allopurinolo 300 mg, 1 compressa al giorno.

Tabella 4: Dati della popolazione femminile al tempo 0 (T=0).

CasoPeso
(kg)
Altezza
(cm)
BMI
(kg/m2)
Glicemia a digiuno (mg/dl)Colesterolo Totale (mg/dl)HDL
(mg/dl)
LDL
(mg/dl)
Trigliceridi
(mg/dl)
187.516033.408122863142.4113
262.514131.448920348128.6132
37515830.04821947012873
410116437.558225736199.4108
59316235.4411834595230.498
690.717131.02861685410070
713516450.20932094714889
889.516134.1011619041133.478
9109.516639.749524547Indeterminato314
1090.515836.25872216613695
118415435.4210725241196136
127515830.04922108212361
1393.516036.521001446270.458
14110.515844.2610518643119142
159016333.878822547159.294

Tabella 5: Comorbilità nella popolazione femminile e integrazione/farmaci consigliati come terapia complementare al trattamento farmacologico con Saxenda®, al tempo 0 (T=0). In questa tabella non sono stati riportati gli eventuali farmaci prescritti in precedenza ai pazienti da altri specialisti.

CasoComorbilità
Integrazione/Farmaci consigliati
1NAFLD, ipercolesterolemia, obesità grado 1, deficit vitamina DArmolipid Plus; Dibase gocce 10000 UI
2NAFLD, obesità di grado 1Nessuno
3NAFLD, obesità di grado 1Nessuno
4NAFLD, sindrome metabolica, obesità di grado 2, deficit vitamina DFolina 5 mg; Atorvastatina 40 mg; Dibase gocce 10000 UI
5NASH, ipercolesterolemia, obesità di grado 2, Tiroidite di Hashimoto, GERD, gastropatia cronica ed ernia iataleAtorvastatina 10 mg; Olmesartan 10 mg
6NAFLD, obesità di grado 1Nessuno
7NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 3, iperuricemiaNessuno
8NASH, alterata glicemia a digiuno e insulino-resistenza, obesità di grado 1, deficit vitamina D Sillbrain; Dibase gocce 10000 UI
9NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 2, ipotiroidismoOlevia 1000 mg; Acido Ursodesossicolico 300 mg; Sillbrain
10NASH, ipercolesterolemia, tiroidite cronica autoimmune, obesità di grado 2Nessuno
11NAFLD, sindrome metabolica, obesità di grado 2Nessuno
12NAFLD, obesità di grado 1, tiroidite di HashimotoNessuno
13NASH, ipertensione arteriosa, obesità di grado 2Nessuno
14NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 3LegalonE
15NAFLD, ipercolesterolemia, basso HDL, obesità di grado 1, celiachiaArmolipid Plus; Folina 5 mg

Tabella 6: Dati della popolazione maschile al tempo 0 (T=0).

CasoPeso
(kg)
Altezza
(cm)
BMI
(kg/m2)
Glicemia a digiuno (mg/dl)Colesterolo Totale (mg/dl)HDL
(mg/dl)
LDL
(mg/dl)
Trigliceridi
(mg/dl)
111817239.8915114841Indeterminato217
29217530.0487158509470
313216747.331051743612565
410517335.089821479116.493
510916938.1615527547Indeterminato346
697.517930.438519369108.279
7110.818532.3710922034153.8161
89217629.7012518435113117
911017237.181451556479.856
1013317443.93961693112660
1111017834.7213422338Indeterminato450
12111.717536.4712021451163230
1390.516732.457420931Indeterminato255
1410718431.6012230142233.6177
1511517637.451121453773.2174

Tabella 7: Comorbilità nella popolazione maschile e integrazione/farmaci consigliati come terapia complementare al trattamento farmacologico con Saxenda®, al tempo 0 (T=0). In questa tabella non sono stati riportati gli eventuali farmaci prescritti in precedenza ai pazienti da altri specialisti.

CasoComorbilità
Integrazione/Farmaci consigliati
1NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 2Olevia 1000 mg; LegalonE; Metformina 500 mg
2NAFLD, obesità di grado 1LegalonE
3NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 3Acido Ursodesossicolico 300 mg
4NAFLD, insulino-resistenza, obesità di grado 2, pregresso intervento di sleeve gastrectomyNessuno
5NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 2Olevia 1000 mg; LegalonE; Acido Ursodesossicolico 300 mg
6NAFLD, obesità di grado 1, deficit vitamina DDibase gocce 10000 UI
7NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 1Sillbrain; Simvastatina 20 mg
8NASH, sindrome metabolica, sovrappeso, deficit vitamina DOlevia 1000 mg; Dibase gocce 10000 UI
9Cirrosi epatica di verosimile genesi dismetabolica, ipertensione arteriosa, diabete di tipo 2, obesità di grado 2, pregressa emorragia cerebraleMetftormina 1000 mg
10NAFLD, sindrome metabolica, obesità di grado 3, pregresso intervento di sleeve gastrectomyNessuno
11NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 1, iperuricemiaOlevia 1000 mg; Allopurinolo 300 mg
12NASH, sindrome metabolica, obesità di grado 2, iperuricemia, deficit vitamina DOlevia 1000 mg; Inegy 10/40 mg; Dibase gocce 10000 UI
13NAFLD, sindrome metabolica, obesità di grado 1Olevia 1000 mg; LegalonE
14NASH, ipertensione arteriosa, sindrome metabolica, obesità di grado 1Sillbrain; Perindopril 2 mg; Bisoprololo 2,5 mg; Rosuvastatina/Ezetimibe 5/10 mg; Acido Ursodesossicolico 300 mg
15NAFLD, ipertensione arteriosa, sindrome metabolica, obesità di grado 2Valsartan 80 mg; Olevia 1000 mg; Sillbrain

6.2 Dati dei casi clinici dopo 16 settimane di trattamento con Saxenda® (T=16)

Dopo il periodo di trattamento previsto di 16 settimane, la popolazione studiata è tornata per il follow-up. I dati raccolti in questa sede sono rappresentati nelle tabelle sottostanti (Tabelle 8 e 9).

Popolazione femminile – In 4 casi su 15 sono state apportate delle modifiche nell’integrazione o terapia farmacologica complementare consigliata. Nello specifico, in 1 caso è stata sospesa l’integrazione con Armolipid plus; in 2 casi è stato sospeso l’integratore Sillbrain; in 1 caso, è stato prescritto di utilizzare Lattulosio al bisogno in caso di stitichezza. Nei restanti 11 casi, l’integrazione o la terapia farmacologica complementare sono rimaste invariate. Inoltre, in 1 caso su 15 si è visto un miglioramento delle condizioni della paziente, da obesità di grado 2; in 4 casi su 15, un miglioramento dalla condizione di obesità di grado 1 a sovrappeso. Tra gli effetti avversi riscontrati: 2 casi su 15 hanno riferito cefalea nelle prime 3 settimane di trattamento; 1 caso ha riferito nausea nelle prime 4 settimane di trattamento; 1 caso ha riferito due episodi di vomito nella prima settimana di trattamento; 1 caso ha riferito stitichezza dopo 35 giorni di trattamento. 

Popolazione maschile – In 3 casi su 15 sono state apportate delle modifiche nell’integrazione o terapia farmacologica complementare consigliata. Più specificamente, in 1 caso è stata sospesa l’integrazione con LegalonE; in 1 caso sono stati prescritti in farmaci Simvastatina/Ezetimibe 40/10 mg, 1 compressa la sera dopo cena, e Metformina 500 mg, 1 compressa per due volte al giorno dopo colazione e cena, e consigliato di continuare l’integrazione con LegalonE, nonostante fosse inizialmente stato consigliato di utilizzarlo solo per 8 settimane; infine, in 1 caso è stato prescritto l’utilizzo di Acido Ursodesossicolico 300 mg, 1 compressa per due volte al giorno dopo i pasti con la forte raccomandazione di astenersi dall’alcol. Inoltre, in 3 casi su 15 si è visto un miglioramento dalla condizione di obesità di grado 1 a sovrappeso. Tra gli effetti avversi riscontrati: 1 caso ha riferito nausea la prima settimana di trattamento; 1 caso ha riferito nausea durante le prime 4 settimane di trattamento; 1 caso ha riferito diarrea nei primi 5 giorni di trattamento.

Tabella 8: Dati della popolazione femminile dopo 16 settimane di trattamento con Saxenda® (T=16).

CasoPeso
(kg)
Altezza
(cm)
BMI
(kg/m2)
Glicemia a digiuno (mg/dl)Colesterolo Totale (mg/dl)HDL
(mg/dl)
LDL
(mg/dl)
Trigliceridi
(mg/dl)
179.816031.17711834811699
25914129.688219951122.2129
372.915829.2781906910865
499.716437.071181796095.2119
59016234.291042648815388
679.517127.19841655892.871
7126.516445.738019950131.488
884.516130.10841994212879
9104.516637.92861563987.6177
107415829.648019052114.6117
118215434.581011473086.6152
126915827.6478159648385
1389.516034.96801466562.493
1410115838.78961504786105
1580.716330.377920051130.692

Tabella 9: Dati della popolazione maschile dopo 16 settimane di trattamento con Saxenda® (T=16).

CasoPeso
(kg)
Altezza
(cm)
BMI
(kg/m2)
Glicemia a digiuno (mg/dl)Colesterolo Totale (mg/dl)HDL
(mg/dl)
LDL
(mg/dl)
Trigliceridi
(mg/dl)
1111.817237.7913312232Indeterminato207
289.517529.228616246102.468
312216743.74100158509470
410317334.419721073118.294
510616937.1111824659Indeterminato206
694.517929.498019572107.478
710918531.85981553898.493
88017625.8311218244117.2104
910617235.831271476766.866
10128.517442.44831394780.259
11103.517832.679618240124.289
1210717534.941181323962.6152
138316729.767116738105120
1410318430.421031613595.2154
15111.717636.061021263556.6172

Inoltre, al fine di valutare gli effettivi benefici del farmaco sono stati analizzati i seguenti parametri: variazione del peso corporeo, glicemia a digiuno, colesterolo totale e trigliceridi.

Peso corporeo: 

Popolazione femminile – in tutti i casi è stata registrata una diminuzione del peso corporeo dall’inizio del trattamento con il farmaco Saxenda® (-15.1%±4.3 rispetto al T=0), che tuttavia non risulta statisticamente significativa (p value = 0.194, Student’s t-test) (Figura 14).

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Figura14: Rappresentazione grafica della variazione del peso corporeo nel gruppo femminile.

Popolazione maschile – in tutti i casi è stata registrata una diminuzione non significativa del peso corporeo dall’inizio del trattamento con il farmaco Saxenda® (-4.6%±3.38 rispetto al T=0; p value = 0.300, Student’s t-test) (Figura 15).

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Figura 15: Rappresentazione grafica della variazione del peso corporeo nel gruppo maschile.

Glicemia a digiuno: 

Popolazione femminile – in questo gruppo, in 14 casi su 15 è stata rilevata una diminuzione del valore di glicemia a digiuno dopo 16 settimane di trattamento; in 1 caso, la glicemia è aumentata. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 8.4%±3.24 di questo parametro, con un p value di 0.084, indicante quindi una tendenza quasi significativa alla diminuzione di questo parametro (Figura 16).

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Figura 16: Rappresentazione grafica della variazione della glicemia a digiuno nel gruppo femminile.

Popolazione maschile – in tutti i casi è stata rilevata una diminuzione del valore di glicemia a digiuno dopo 16 settimane di trattamento. La variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 11.3%±4.55 di questo parametro, che equivale a un p value 0.109 se analizzato con Student’s T-test. Seppur non significativo questo risultato mostra una tendenza alla diminuzione (Figura 17).

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Figura 17: Rappresentazione grafica della variazione della glicemia a digiuno nel gruppo maschile.

Trigliceridi: 

Popolazione femminile – in 3 casi su 15 è stato rilevato un aumento del valore dei trigliceridi, mentre nei restanti 12 casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo dato. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 6.1%±7.88 di questo parametro, ma tramite analisi statistica il p value calcolato è risultato pari a 0.706, quindi il farmaco non impatta sui trigliceridi (Figura 18).

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Figura 18: Rappresentazione grafica della variazione dei trigliceridi nel gruppo femminile.

Popolazione maschile – in 3 casi su 15 è stato rilevato un aumento del valore dei trigliceridi, mentre nei restanti 12 casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo dato. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 32.1%±13.05 di questo parametro, che tuttavia non risulta significativa (p value =0.104) a causa dell’alta variabilità dei dati analizzati. (Figura 19).

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Figura 19: Rappresentazione grafica della variazione dei trigliceridi nel gruppo maschile.

Colesterolo totale: 

Popolazione femminile – in 2 casi su 15 è stato rilevato un aumento del valore del colesterolo totale, mentre nei restanti 13 casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo parametro. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 16.8%±7.90 del valore di questo parametro, e allo Student’s T-test il p value calcolato è risultato pari a 0.016, quindi il dato è statisticamente significativo (Figura 20).

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Figura 20: Rappresentazione grafica della variazione del colesterolo totale nel gruppo femminile.

Popolazione maschile – in tutti i casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo parametro, con una variazione percentuale del 16.7%±8.65, e allo Student’s T-test il p value calcolato è risultato pari a 0.030, quindi anche in questo caso il dato è statisticamente significativo (Figura 21).

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Figura 21: Rappresentazione grafica della variazione del colesterolo totale nel gruppo maschile.

7. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

In questo studio sono stati valutati gli effetti del farmaco Saxenda®, il cui principio attivo è la Liraglutide, analogo del GLP-1, per il trattamento di sovrappeso e obesità. Nello specifico, è stata analizzata una popolazione suddivisa in due gruppi, rispettivamente di 15 femmine e 15 maschi, adulti, di età compresa tra 18 e 60 anni, con la presenza contemporanea di una o più comorbilità. Tutti i partecipanti allo studio sono pazienti del Dottor Georgios Anastassopoulos, specialista in epatologia e medicina interna, la cui attività viene svolta in diversi ambulatori nelle provincie di Rovigo e Venezia. 

Lo studio è stato condotto da gennaio ad agosto 2023, periodo di tempo in cui i partecipanti hanno potuto effettuare le analisi del sangue sia al tempo 0 (T=0), cioè prima dell’inizio del trattamento, sia dopo 16 settimane di terapia con Saxenda® (T=16). Sono stati esaminati i seguenti parametri: peso, altezza, BMI, glicemia a digiuno, profilo lipidico (colesterolo totale, HDL, LDL e trigliceridi), eventuale integrazione o prescrizione di farmaci complementari alla terapia con Saxenda®, effetti avversi e criticità rilevate.

La popolazione femminile ha mostrato complessivamente una perdita di peso riscontrata in tutti i 15 casi, con una variazione percentuale del 15.1%±4.30 (p value = 0.194).

Per quanto riguarda la glicemia a digiuno, in 14 casi su 15 è stata rilevata una diminuzione del valore di glicemia a digiuno dopo 16 settimane di trattamento; in 1 caso, la glicemia è aumentata. Complessivamente, la variazione percentuale in termini di diminuzione di questo parametro è risultata del 8.4%±3.24 (p value = 0,084,). Nonostante queste analisi non abbiamo incontrato la significatività statistica, è evidente una tendenza che sfiora la significatività e, pertanto, sarebbe interessante approfondire questo aspetto in studi successivi, su una popolazione più numerosa, magari trattata per un periodo più lungo.

In 3 casi su 15 è stato rilevato un aumento del valore dei trigliceridi, mentre nei restanti 12 casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo dato. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una leggera diminuzione (-6,1%±7.88, p value = 0.706).

Infine, un parametro che merita particolare attenzione è il colesterolo totale: infatti in 2 casi su 15 è stato rilevato un aumento del valore di questo dato, mentre nei restanti 13 casi è stata registrata una diminuzione. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 16.8%±7.9 del valore di questo parametro (p value = 0,016, quindi il dato è statisticamente significativo). 

La popolazione maschile ha dimostrato complessivamente una perdita di peso riscontrata in tutti i 15 casi, con una leggera variazione percentuale (-4.6%±3.38, p value=0.300).

Per quanto riguarda la glicemia a digiuno, in tutti i casi è stata rilevata una diminuzione del suo valore dopo 16 settimane di trattamento, con una variazione percentuale del 11.3%±4.55 (p value = 0.109, dato non statisticamente significativo). 

In 3 casi su 15 è stato rilevato un aumento del valore dei trigliceridi, mentre nei restanti 12 casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo dato. Nel complesso, la variazione percentuale ha dimostrato una diminuzione del 32.1%±13.05 di questo parametro (p value = 0.104, quindi il dato non è statisticamente significativo). 

Infine, anche in questo caso un parametro che merita particolare attenzione è il colesterolo totale: infatti, in tutti i casi è stata registrata una diminuzione del valore di questo dato, con una variazione percentuale del 16.7%±8.65 (p value = 0.030), che esattamente come nella popolazione femminile si dimostra un risultato statisticamente significativo e quindi di primaria rilevanza.  Data la rilevanza statistica di questo risultato in entrambi i sessi, sarebbe interessante approfondire in studi successivi la variazione di questo parametro in un periodo di tempo più lungo, con e senza utilizzo complementare di statine o integratori a base di riso rosso fermentato, al fine di valutare l’effetto del farmaco Saxenda® da solo e in sinergia con altre sostanze.

Dai dati raccolti in questo studio è emerso che l’effetto del farmaco, insieme ad una dieta ipolipidica e ipoglucidica e un’aumentata attività fisica, ha contribuito in tutti i casi alla perdita di peso, seppur non sostanziale, nei due gruppi esaminati. Inoltre, per entrambi i gruppi, glicemia a digiuno, colesterolo totale e trigliceridi hanno mostrato tutti una tendenza alla diminuzione sia nelle femmine sia nei maschi. Tuttavia, il dato più interessante è quello riguardo i livelli di colesterolo, che risulta statisticamente diminuito in entrambi i gruppi sperimentali, e quindi sia nei maschi che nelle femmine. Sarebbe, pertanto, molto interessante approfondire questo aspetto in uno studio su una popolazione più ampia, con e senza l’utilizzo contemporaneo di statine o integratori a base di riso rosso fermentato, per comprendere più a fondo l’impatto del farmaco su questo dato, da solo e in sinergia con le sostanze appena citate.

Un altro aspetto molto interessante emerso da questo studio riguarda le criticità riscontrate dai pazienti che hanno partecipato all’indagine. 

Popolazione femminile – 3 pazienti su 15 hanno riferito di aver avuto difficoltà nell’essere costanti ad effettuare un’iniezione sottocute per tutta la durata dello studio. Nello specifico, le pazienti hanno riferito che la loro difficoltà derivava dal fatto di non accettare del tutto questo aspetto, cioè l’atto dell’iniezione sottocute una volta al giorno per 16 settimane. Altre 2 pazienti hanno riferito di avere nutrito troppe aspettative circa l’effetto del farmaco; nello specifico, pensavano di perdere più peso di quello effettivamente perso. 

Popolazione maschile – Anche per quanto riguarda il gruppo dei maschi, le criticità maggiormente riscontrate riguardano la compliance e le aspettative. 4 pazienti su 15 hanno riferito una bassa compliance in merito all’atto di effettuare un’iniezione sottocute una volta al giorno per tutta la durata dello studio. Di questi, 1 paziente ha ammesso di aver nutrito aspettative superiori rispetto al risultato effettivamente raggiunto.

Altri due aspetti critici osservati e riscontrati dai pazienti di entrambi i gruppi, in particolare a quelli cui è stato consigliato di proseguire la terapia con Saxenda® anche dopo le 16 settimane dello studio, riguardano il costo e la reperibilità del farmaco. Come è stato precedentemente affermato, Saxenda® viene prescritto su ricetta ripetibile, la cui validità è di sei mesi e con la quale il farmaco può essere dispensato per non più di dieci volte entro tale periodo. Il farmaco appartiene alla classe di rimborsabilità “C”, quindi è a totale carico del cittadino. Il costo è di €210,00 per la confezione da 3 penne e di €288,46 per la confezione da 5 penne. È evidente, quindi, che la scelta nell’utilizzo di tale farmaco ricade solo sulle persone che possono permettersi di affrontare tale spesa, non essendo a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Da questa evidenza sorgono spontanee alcune domande:

  1. È giusto che un farmaco di questo tipo sia a totale carico del cittadino?
  2. Essendo l’obesità considerata come una vera e propria epidemia, non sarebbe corretto che il farmaco, come gli altri analoghi del GLP-1 utilizzati nel trattamento del diabete (Semaglutide e Dulaglutide), venisse dispensato a carico del Servizio Sanitario Nazionale?
  3. Questo aspetto crea una sorta di discriminazione tra persone abbienti e non abbienti? In pratica, solo chi può permettersi di pagare questo farmaco con le proprie tasche può avere accesso a tale terapia farmacologica?

Questi sono aspetti su cui riflettere con estrema attenzione, in quanto il rischio è quello di creare un gap tra chi può affrontare tale spesa e chi no, limitando enormemente le possibilità di questi ultimi nell’avere accesso a tale cura.

Il secondo problema, non per importanza, riscontrato nei mesi della primavera-estate del 2023 riguarda la reperibilità del farmaco Saxenda®. Questo problema è stato notato anche dai pazienti ai quali è stato consigliato di proseguire la terapia farmacologica con il farmaco a base Liraglutide, in quanto Saxenda® è risultato carente per almeno un paio di mesi. Solo chi si era procurato una scatola di scorta, anticipatamente, è riuscito a proseguire la terapia senza difficoltà. Chi, invece, non ha acquistato in anticipo la confezione per proseguire la terapia ha avuto serie difficoltà nella prosecuzione senza interruzioni. 

Per quali motivi Saxenda® è risultato carente?  È ormai noto che molti farmaci sono introvabili o carenti in farmacia; tra questi, in particolare, i farmaci per il diabete a base di Semaglutide e Dulaglutide (Ozempic® e Trulicity®, rispettivamente) e Saxenda®, per il trattamento dell’obesità. Per assicurare la continuità terapeutica dei primi due, che tra l’altro sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale, si può dispensare massimo una confezione per ricetta, anche se sono prescritte più confezioni. Per Saxenda®, ovviamente, questo non accade in quanto viene dispensato con ricetta ripetibile, con la sola raccomandazione orale di acquistare una confezione per volta. I tre farmaci agonisti del recettore del GLP-1 hanno visto un’aumentata richiesta di mercato, per cui la domanda superava di gran lunga la loro disponibilità. Si prevede che le carenze si protrarranno per tutto il 2023. Sebbene la fornitura continui ad aumentare, non è possibile stimare con certezza il momento in cui essa risulterà sufficiente a soddisfare completamente la domanda attuale. Ma cosa ha portato ad una domanda superiore al previsto? Da una moda nata sui social: un’iniezione a settimana di Semaglutide (Ozempic®) e la perdita di peso è promessa come facile e rapida. Tanto rapida e facile che personaggi pubblici, celebrità e influencer hanno ammesso di farne uso, noncuranti degli effetti collaterali e degli effetti negativi impattanti sulla società. Ancora più grave degli eventuali rischi nell’utilizzo di questo farmaco è l’aspetto morale: il perseguire un agognato dimagrimento facile e veloce può prevaricare il reale utilizzo farmacologico del prodotto in questione, ovvero la cura del diabete? È moralmente inaccettabile che persone che hanno reale necessità di questo farmaco, appunto per la cura del diabete, rischino di trovarsi senza terapia per una moda nata sui social che permette di utilizzare questo farmaco per dimagrire in modo rapido e veloce. Fortunatamente, nel nostro Paese, l’uso di Ozempic® fuori indicazione (ovvero per l’obesità) è stato abbastanza limitato in quanto l’AIFA ne permette la prescrizione solo in caso di diabete di tipo 2 non controllato, in aggiunta a dieta, esercizio fisico ed eventualmente altri medicinali. La carenza del farmaco in Italia, quindi, sembra essere la conseguenza del dirottamento dello stesso verso altri Paesi con maggiore richiesta, e probabilmente a maggiore remunerazione per il produttore. Non volendo fare alcuna dietrologia, si deve avere l’obiettività di dover constatare che, mentre in alcune parti del mondo c’è chi muore per mancanza di antibiotici o di insulina, da noi invece manca un farmaco per l’obesità. Queste sono considerazioni per i farmaci a base di Semaglutide e Dulaglutide. Per Saxenda®, la questione è leggermente diversa in quanto la sua domanda è aumentata e ha superato le richieste in virtù del suo reale utilizzo, cioè il trattamento dell’obesità. Pertanto, si può concludere che prima di arrivare alla distribuzione di un farmaco e prima della sua approvazione, sarebbe necessario e opportuno prevedere le quantità necessarie in modo molto più attento, sulla base dell’epidemiologia e delle possibilità dei mercati. 

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